Scissione PD, lo spettro che agita la sinistra

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Matteo Renzi avverte, la minoranza risponde. E’ questo l’esito dello scontro a distanza avvenuto nell’ultimo week-end tra renziani e minoranza PD. La doppia manifestazione in contemporanea, con il sostegno della minoranza PD ai sindacati da un lato e la Leopolda renziana dall’altro, ha certificato una volta in più il profondo solco tracciato ormai tra le due anime del PD. Ma stavolta c’è qualcosa di più, e all’orizzonte compare una parola sino ad oggi sottaciuta: scissione.

L’AVVERTIMENTO DI RENZI

Il premier dal palco della Leopolda 5 è stato drastico: non c’è nessuna intenzione di riconsegnare un PD al 40% a chi lo aveva spinto al ribasso sino al 25%. Un avvertimento che suona più o meno così: la svolta è arrivata, la strada è tracciata e tutti devono adeguarsi. Ma la vecchia guardia del PD pare ormai essere giunta al limite della sopportazione. E, nonostante l’ex segretario Bersani continui a gettare acqua sul fuoco, dichiarando di voler portare avanti le proprie idee all’interno del PD – tesi confermata anche dal bersaniano di ferro D’Attorre – c’è chi sembra aver raggiunto il limite della sopportazione, dinanzi all’ennesima accelerazione del segretario e premier sul Jobs Act.

FASSINA: SCISSIONE GIA’ IN ATTO

E’ Stefano Fassina, da sempre uno dei più strenui avversari interni dell’ala renziana, a non usare mezzi termini, intervistato dall’Huffington Post: “Una scissione molecolare è in atto. Abbiamo incontrato molte persone che ci hanno detto che hanno lasciato il Pd”. Tuttavia, respinge ogni responsabilità ed aggiunge: “Oggi dico che la dovremmo evitare. Ma è il presidente del Consiglio che alimenta la contrapposizione, ricercando un nemico”.

Fassina entra nel merito dei provvedimenti e ribadisce a chiare lettere della sua ferma opposizione al Jobs Act: “Senza correzioni significative, non lo voto. Il contratto unico non c’è nella delega lavoro. Basta leggerla. Nella delega si va sulla piattaforma Sacconi-Ichino: si elimina l’articolo 18 ma senza disboscamento della giungla contrattuale. E, insisto, nella legge di stabilità non vi sono risorse aggiuntive sugli ammortizzatori sociali”. Una posizione che non verrebbe scalfita nemmeno da un ipotetico voto di fiducia: “Per quanto mi riguarda vale il merito. Se non cambia il merito significativamente non voto la delega lavoro”. E a chi gli fa notare come ciò si tradurrebbe in un esempio di scarsa disciplina di partito, Fassina replica ricordando le vicende infuocate che portarono alla rielezione di Napolitano: “Non accetto lezioni di disciplina di partito da chi ad aprile 2013 di fronte a un passaggio decisivo per la legislatura come l’elezione del capo dello Stato non solo votò in maniera difforme dall’indicazione del suo gruppo ma si attivò per far saltare il tavolo”.

CIVATI, CUPERLO ED ORFINI

Dell’ipotesi scissione PD parla anche Pippo Civati, uno dei maggiori dissidenti all’interno del partito, intervistato dal quotidiano Repubblica. Il suo è un tono fatalista: “Decido se andare via dal Pd nelle prossime settimane. Ma la verità è che è già tutto deciso, ha già scelto Renzi… Ci porterà al voto, altrimenti non avrebbe ingaggiato un duello del genere con il suo partito”. Sebbene spiega di non voler cedere alle provocazioni – “più mi spingono, più mi accanisco a stare dentro” – spiega quale è lo spartiacque: “Vedo se è possibile discutere di Sblocca Italia, articolo 18 e legge di stabilità, altrimenti… Insomma, non mi sono candidato al martirio”. E si aggiunge a Fassina nella lista dei ‘niet’ anche dinanzi ad un voto di fiducia: “Fiducia o meno io il Jobs act e lo Sblocca Italia, così come sono, non li voto”.

Non ha dubbi Gianni Cuperlo, sfidante del premier alle ultime primarie PD, nell’individuare i responsabili di un’eventuale scissione: “La scissione sarebbe una sconfitta del progetto nel quale abbiamo creduto e sta a tutti evitare di precipitare lì, ma è chiaro che Renzi ha una responsabilità enorme». Intervistato dal Corriere, Cuperlo aggiunge: “Se il Pd diventa quello di chi dice che bisogna mettere dei paletti al diritto di sciopero, il Pd non esiste più”.

In difficoltà anche Matteo Orfini, presidente del PD ed uno degli esponenti che si è maggiormente speso per ricucire lo strappo tra le due anime del partito. E a La Stampa ammette l’ipotesi scissione: “Il semplice fatto che se ne parli così di frequente significa che il rischio c’è. Per questo dobbiamo evitare discussioni strumentali e cercare di recuperare il senso di comunità che stiamo perdendo”. Secondo Orfini c’è una sola strada per ricomporre la frattura ed evitare la scissione: “Dovremmo smetterla di usare il ‘noi’ e ‘voi’: la contrapposizione interna alimentata per ragioni di visibilità rischia di distruggerlo un partito”.

GIOVANI DEMOCRATICI E LEOPOLDA PD

Ma c’è chi – in questa diatriba tra renziani e minoranza – non ha alcuna intenzione di schierarsi. Sono i Giovani Democratici che, per voce del coordinatore nazionale Andrea Baldini, chiedono tramite Facebook una vera e propria “Leopolda del PD”. Un modo per frenare “Una minoranza che parla di scissione in atto” ed un “segretario che usa il bastone contro un pezzo del suo partito”. Una situazione che rischia di portare alla “lacerazione di un partito investito dalla speranza e dal consenso di tanti elettori, un partito che non puó gestire la sua dialettica interna come una spaesante sfida tra tifoserie”. Da qui l’avvertimento: “Se non lo farà nessuno, una Leopolda del PD la convocheremo noi. Noi abbiamo ancora voglia di stare ad ascoltare le tante voci che di scissioni non vogliono neanche sentir parlare, ma hanno al contempo voglia di esprimersi, per costruire assieme la linea del partito, e non soltanto per ratificarla”.