Stallo alla messicana

Lo scenario disegnato dal voto del 24 e 25 febbraio non è considerabile come uno scenario alla greca.

Lo scenario elettorale greco, stiamo parlando del 2012, ha visto la ripetizione delle elezioni a seguito dell’impossibilità assoluta di comporre qualsiasi tipo di coalizione. Ciò ha portato il paese di nuovo alle urne, guidato da un esecutivo retto dal presidente consiglio costituzionale, in cui si è polarizzata la dialettica politica tra le forze filo-memorandum europeo (conservatori di Nuova Democrazie e socialisti del Pasok in primis) e forza anti-europee e anti-austerity (la sinistra di Tsipras).

Oggi in Italia numericamente può esserci un governo possibile (quello tra Pd e PdL, già ipotizzato da Berlusconi) cosa assente nel primo scenario greco.

Mentre appare quanto mai irrealistica un fronte nazionale anti-populista (quindi anti-Grillo) da comporre in vista di nuove ed imminenti elezioni politiche, sulla falsariga del secondo scenario ellenico.

Resta il fatto che sul fronte europeo lo scenario che si è delineato era quello più temuto dagli osservatori internazionali. E per capire come si è arrivati a ciò occorre levarsi di dosso alcuni stereotipi e certe semplificazioni:

Il vero sconfitto: il vero sconfitto è uno solo: il centrosinistra e la coalizione Italia Bene Comune guidata da Pierluigi Bersani.

Sconfitti per varie ragioni. Innanzitutto bisogna considerare che la coalizione di centrosinistra partiva favorita in questa competizione. E appariva come la coalizione più forte in quanto all’opposizione dal 2008 al 2011, ovvero sotto il quarto governo Berlusconi.

L’impopolarità di alcune misure e di alcuni atteggiamenti presi da governo di centrodestra ha spinto molti a guardare alla coalizione di Bersani come l’alternativa naturale di fronte al malcontento nei confronti del fronte berlusconiano.

Nonostante la posizione di vantaggio il centrosinistra ha vinto per lo 0.4% alla Camera dei Deputati mentre al Senato ha perso in molte regioni in maniera inaspettata (Calabria, Abruzzo, Puglia)  e in regioni in bilico ma dove però si era ottimisti (la Campania).

Ciò porta il centrosinistra ad avere una maggioranza alla Camera di 345 deputati. Per quanto lo scarto tra centrosinistra e centrodestra alla Camera non sia troppo dissimile da quello del 2006 bisogna osservare che proporzionalmente questi 345 deputati sono molti di più rispetto a 7 anni fa in quanto non si è delineato uno scenario ultra-polarizzato come quello del 2006 e dunque il restante 45% dei seggi non è andato ad una singola coalizione ma a tre (Berlusconi, Grillo, Monti).

Tanto che lo scarto in termini di seggi tra centrosinistra e centrodestra a Montecitorio supera i 200 deputati.

Al tempo stesso però il centrosinistra ha solo la maggioranza relativa al Senato. Ed è quanto mai lontana dalla maggioranza assoluta a Palazzo Madama.

Uno schieramento che si aspettava di governare da solo, pur con un certo allargamento al centro, si troverà nella migliore delle ipotesi a governare col centrodestra di Berlusconi.

Il Pd alla Camera prende il 25.4%. Si tratta della peggior percentuale della storia del partito a livello nazionale. Ancor più basso dello storico minimo del partito, quel 26.1% che prese guidato da Dario Franceschini alle europee del 2009.

Il centrosinistra perdente nel 2008 ottenne circa il 38% dei voti contro un centrodestra vicino al 48%. Questo vuol che non solo il Pd di Bersani non è stato assolutamente in grado di intercettare quei voti che cinque anni fa determinarono la vittoria dello schieramento vincitore, ma ne addirittura persi. Sia dal punto di vista percentuale (oltre 8% in meno del 2008) sia dal punto di vista assoluto (affluenza crollata del 5.3% rispetto a cinque anni fa).

La verità è che Bersani, eletto segretario del partito nell’ottobre 2009, non ha mai vissuto veri e propri test nazionali.

L’unico test in parte nazionale sono state le regionali del 2010, dove andarono al voto 11 regioni.

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Elezioni perse dal centrosinistra (anche se Bersani pronunciò la celebre frase “non me la sento di cantar vittoria, ma nemmeno di dichiararmi sconfitto”) in quanto due delle tre regioni in bilico (Piemonte e Lazio) andarono al centrodestra (nonostante l’assenza della lista del PdL in provincia di Roma) e solo una al centrosinistra (dove tra l’altro si affermò Vendola, fortemente osteggiato da Bersani in una prima fase per le sue velleità di ricandidatura).

Tutti gli altri test sono stati di carattere amministrativo e perlopiù in periodi storici quanto mai a sfavore di Berlusconi.


Emblematiche le amministrative del 2012 stravinte dal centrosinistra
ma solo perché in grado di mandare il suo storico elettorato al voto di fronte ad un astensionismo dilagante (come testimonia, un dato su tutti, l’elezione del consiglio comunale di Como, zona tradizionalmente non di sinistra, che registrò un’ingiustificata impennata dell’oltre il 70% per il centrosinistra non accompagnata però da un conseguente aumento dei voti assoluti).

O come, giusto per fare un altro esempio, il dato delle regionali siciliane del 2012: un Pd alleato con Casini che supera di poco il 30%. E si giova perlopiù di un alto tasso di astensionismo e della divisione tra il candidato Musumeci e Micciché.

Da qui il grande deficit della segreteria Bersani che ha visto un Pd attestato, secondo i sondaggi, massimo al 27% nel corso di questi tre anni. Mentre l’unico momento in cui il Pd è schizzato sopra il 31% nei sondaggi è stato durante le elezioni primarie del centrosinistra quando si stava dando una parvenza di democraticità e di competitività per la leadership della coalizione.

Il caso mediatico del “finto vincitore”: Il finto vincitore di queste elezioni politiche si chiama Silvio Berlusconi.

Nonostante quotidiani come “Libero” e “Il Giornale” segnalino con enfasi le caratteristiche di questo nuovo “miracolo berlusconiano” possiamo dire senza ombra di dubbio che queste affermazioni sono del tutto esagerate.

Come del resto il centrosinistra si è giovato delle debolezze altrui per ottenere in passato alcuni risultati (le amministrative di cui sopra) il centrodestra ha sfruttato le debolezze e le mancanza di una campagna propositiva tesa ad ottenere più voti da parte del Pd per apparire come il vero vincitore agli occhi dell’opinione pubblica.

La realtà è un’altra: il PdL cala di 15% percentuali rispetto al 2008. La Lega Nord a guida maroniana dimezza i propri consensi. Le stesse formazioni meridionalistiche (Grande Sud e Mpa) ottengono praticamente la metà dei consensi del 2008.

Forze politiche in grado di vincere nel 2008 non solo si sono piazzate secondo nel computo delle coalizioni. Ma sono sostanzialmente passate dal 50% al 29.1% registrato un crollo di oltre 20% percentuali.

Infatti al computo del 2008 (PdL, Lega Nord e Mpa) occorre sommare, se non il 2.4% ottenuto cinque anni fa dalla Destra di Storace, almeno l’1.2% dovuto al fatto che la Fiamma Tricolore che sostenne la lista storaciana in queste elezioni correva in solitaria.

Rispetto a cinque mesi fa c’è stato un’indubbia ripresa da parte del PdL. Ma pur sempre flebile e in linea con alcuni dati di tipo sub culturale in grado di assegnare una rispettabile e costante base elettorale allo schieramento di centrodestra.

Il dato berlusconiano spicca solo per la bassezza del dato del Pd. Ma non ha nulla di veramente notevole.

Il vero vincitore: Il vero vincitore è Beppe Grillo. Capace di portare il suo Movimento 5 Stelle ad diventare il partito di maggioranza relativa del paese (alla Camera) dal nulla.

Grillo diventa il vero terzo polo del paese, rischia di creare una vera e propria situazione di vuoto politico e al tempo stesso di considerare l’attività istituzionale del paese.

Il Movimento porterà a Montecitorio oltre 100 deputati. Nell’ottica di composizione di una maggioranza di governo il Movimento sembra più adatto a fornire appoggi alla mera attività legislativa sulla falsariga dell’appoggio esterno nei governi di minoranza.

Non sembrano esserci i margini ne’ la volontà politica per comporre governi Pd-Grillo o PdL-Grillo.

Casomai sul modello siciliano si possono ottenere i voti dei grillini su singoli provvedimenti. Il problema è che sembra mancare quella base parlamentare in grado di dar vita ad una parvenza di governo capace di accompagnare a livello parlamentare una qualche attività legislative.

Parziali delusioni: Monti può dirsi deluso dall’esito del voto. Non tanto perché ora appare come un personaggio di parte e non più imparziale come un tempo (punto di forza molto forte nel corso del suo governo), ma per i risultati bassi della sua lista soprattutto al Senato.

Ha pesato molto il sostegno ad un’esperienza “civica” come quella montiana l’apporto di due esponenti politici a tutti gli effetti come Casini e Fini.

Al Senato, dove montiani, casiniani e finiani correva sotto lo stesso simbolo, il risultato dello schieramento è stato più basso dell’1.5% rispetto alla Camera.

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Con l’Udc sotto al 2%, e quindi al di sotto della soglia di sbarramento per le liste di coalizione, il partito di Casini diventa “il miglior perdente” della coalizione montiana causando così la cancellazione di Fli e di Gianfranco Fini dagli scranni parlamentari.

Ci sono i presupposti ora da parte di Monti di scaricare Casini e Fini e mettersi in proprio con la sua piccola pattuglia parlamentare. Del resto in un momento in cui le proiezioni parlavano di una coalizione Monti sotto al 10% il rischio era non solo l’esclusione di Fli, ma anche di Casini e dell’Udc dal Parlamento.

Conclusioni: si tratta del voto meno polarizzato della storia della Seconda Repubblica. Uno schema in cui quasi ogni schieramento rappresenta un terzo degli elettori.

Difficile fare previsioni. La sensazione è che assi Pd-PdL non producano esecutivi duraturi e al tempo stesso consentano Grillo di rafforzarsi in quanto unica vera opposizione al sistema dei partiti.

Si tratta del voto più anti-europeo della storia dell’Italia, membro fondatore della comunità europea.

Se si sommano le percentuali del centrodestra, di Grillo e di Rivoluzione Civile il fronte euro-scettico si attesta sul 50% (e nel fare questo calcolo si considerano più le intenzioni dei singoli leader che le convinzioni degli elettori).

Uno stallo parlamentare alla messicana, come nella tradizione western. Con l’aggravante che cade nel bel mezzo del semestre bianco, con un Capo dello Stato che pur volendo non potrebbe sciogliere il Parlamento.

Ed è questa l’unica certezza: sarà questo Parlamento ad eleggere il prossime Presidente della Repubblica Italiana.