Argomenti sbagliati per tesi giuste. Argomenti giusti per tesi sbagliate

congresso partito democratico

Quello che è successo è una catastrofe per la sinistra. Ma perchè è una catastrofe? Nietzsche diceva che difendere una tesi giusta con argomenti sbagliati è il modo migliore per nuocerle. E paradossalmente ora non solo avviene questo, ma anche l’opposto, ovvero che si impieghino argomenti giusti in linea di principio, che però diventano sbagliati se calati nella situazione presente.

In che senso? Si sono affermate grosso modo due linee di pensiero sulla valutazione dei fatti:

1) Il PD avrebbe dovuto votare Rodotà, per la carica di “rinnovamento” di cui il candiato era espressione e per permettere in seguito un accordo con il Movimento 5 Stelle. Secondo questo punto di vista bene si è fatto a silurare Marini, percepito come un candidato non rispondente a tale bisogno di rinnovamento. Da questo punto di vista l’elezione di Napolitano rappresenta un arroccamento delle vecchie classi dirigenti e il governo con Berlusconi costituisce un “tradimento” nei confronti dell’elettorato la cui volontà era “mai con Berlusconi”. L’alleanza esplicita viene considerata inaccettabile moralmente, ancor prima che politicamente. Per questo scaturisce un movimento di protesta nella base che vuole essere espressione del fatto che i militanti del partito non si sentono più rappresentati dai dirigenti.

A questa lettura se ne contrappone un’altra:

2) L’intero modo di pensare sopra descritto manifesta subalternità culturale nei confronti del grillismo. Rodotà non poteva essere proposto in quanto (oltre a non avere i numeri) sarebbe stato un cedimento esplicito nei confronti del Movimento 5 Stelle. La bocciatura di Marini è stato un fatto gravissimo in quanto con essa è avvenuta una rottura della disciplina di partito. Essendo stato deciso a maggioranza quel candidato, il partito avrebbe dovuto sostenerlo, senza cedere agli umori della piazza. In generale, si rimprovera a coloro che sostengono la prima tesi un’incomprensione del concetto di rappresentanza politica e un cedimento alle suggestioni populistiche dei grillini. Rappresentante non è colui che deve farsi portavoce immediato degli umori della base, ma effettuare delle scelte di maggior respiro, che tengano conto di considerazioni politiche con non possono essere immediatamente evidenti a tutti e più in generale del bene del paese.

Entrambe le linee di pensiero hanno una loro legittimità e coerenza interna. Ma a mio avviso entrambe non colgono il punto, per motivi diversi. Ma per capire qual è il punto bisogna porsi una domanda che si situa più a monte, una domanda che sollecita risposte di una complessità a cui forse non siamo più abituati. La domanda è: che cos’è la sinistra? che cosa si prefigge? La mia impressione è che da molto tempo nessuno si ponga davvero questa domanda.

Solo se si ha chiara una risposta di massima a questa domanda, e la risposta è condivisa, pur tra le differenze interne e le divergenze di interpretazione che inevitabilmente sorgono, ha senso parlare di un partito di sinistra. Solo a quel punto ha senso rivendicare l’unità d’azione del partito come intero. Questa condizione nel PD non è soddisfatta. Il cosidetto “partito aperto” non è un partito in questo senso, in quanto non si pone il compito di trasformare la società in base alla propria riflessione e alle proprie idee, ma semplicemente di rispecchiarla passivamente.

Molti (incluso il sottoscritto) hanno creduto che il tentativo di Bersani potesse costituire una sorta di rifondazione del PD, una sua trasformazione nella direzione di un partito vero e proprio. Così non è stato. Bisogna avere il coraggio, ora, di procedere ad un’analisi impietosa dei punti di debolezza. In molti hanno individuato questa debolezza in aspetti come la comunicazione. Certo difficoltà ci sono state, ma esse nascevano da un problema che si situava più a monte, un problema politico.

Non bisogna mai scordarsi, in primo luogo, della fase storica tutt’altro che ordinaria nella quale si è inserita la parabola di Bersani: la più grande crisi economica dalla seconda guerra mondiale, entro la quale si è inserita la crisi dell’Eurozona. Di questa crisi, entro il Partito Democratico si era sviluppata fin dal 2010 un’analisi (non condivisa peraltro da altre parti dello stesso partito) che era più avanzata della maggior parte delle altre analisi allora disponibili. Ora tutti sono contrari all’austerità, ma all’epoca dirlo sembrava una bestemmia. E su questa analisi si era costruita una grande prospettiva di cambiamento a livello non solo nazionale, ma europeo. Hollande, Bersani e poi i socialdemocratici tedeschi: il cambiamento di egemonia politica e una presa d’atto a livello culturale dei fallimenti dell’ideologia neoliberista avrebbero determinato un cambio di direzione nella gestione della crisi, che si sarebbe accompagnato ad un recupero delle idee della sinistra, con un rafforzamento dei poteri europei in una direzione autenticamente democratica, recuperando così a livello europeo quella capacità di incidere sui processi e di regolarli che era stata persa al livello nazionale, perchè di scala troppo ridotta rispetto alle dimensioni della globalizzazione.

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Si trattava di una visione grandiosa, un ritorno della grande politica, posta per un trentennio in una posizione ancillare rispetto alla finanza. E si trattava di una visione che avrebbe permesso di liquidare d’un colpo tanti vizi della sinistra degli ultimi vent’anni: il moralismo, il provincialismo, lo stesso antiberlusconismo.

Ma era una visione che richiedeva moltissimo coraggio e sopratutto un’esatta coscienza diffusa della missione storica a cui si era chiamati. Questo coraggio e questa chiarezza ideale sono mancate. Con il sostegno al governo Monti, che poteva anche essere tatticamente compreso, ma che doveva durare di meno e doveva essere spiegato meglio. Con le primarie che hanno portato a ricadere in falsi dibattiti su un “rinnovamento” di persone ma non di idee. Con una campagna elettorale in cui il nemico è ritornato ad essere il vecchio, logoro Berlusconi. Bisogna scegliersi il proprio nemico. La sinistra aveva la possibilità di scegliersi un grande nemico, un nemico metafisico: il neoliberismo. Si è invece scelta un nemico da operetta.

Questo ci conduce alla sconfitta e all’affermazione di Grillo. Anche qui eravamo di fronte a un segnale, certo. Ma quel segnale si poteva interpretare in due modi. O nel modo più banale, come un voto “contro i partiti”, oppure come un voto contro la crisi, l’austerità e le misure del governo Monti dettate dall’Europa a guida tedesca, per l’affermazione di una diversa idea di Europa. L’idea di coinvolgere Grillo in un governo era l’idea giusta. Ma in questi casi ciò che conta, ancora prima delle alleanze, è il senso politico dell’alleanza. Paradossalmente persino un governo con Berlusconi sarebbe stato positivo se impostato su un programma di contestazione del fiscal compact e dei vincoli europei. Il voto è stato invece interpretato nel modo più semplice, segnando la vittoria di Grillo, prima di tutto sul piano ideologico.

Per questo Marini era la scelta sbagliata: non perchè esponente della “vecchia” politica, ma perchè caldo sostenitore dell’alleanza PD-Monti. E per questo richiamarsi alla fedeltà ad un partito che aveva smarrito la bussola ideale originaria era fuorviante. Il centralismo democratico, in mancanza di un’unità ideale diventa dittatura sulle minoranze.

Ed è per questo che la sinistra è in crisi. Ancora prima di essere in crisi di preferenze, il problema della sinistra è di non sapere chi è. Riscoprirlo è possibile ma richiede un lungo percorso. E richiede di prendere nuovamente sul serio parole come “riflessione”, “teoria”, “pensiero”.