Governo Letta la diversa strategia tra pd e pdl

Come abbiamo cercato di evidenziare nella “Settimana Politica” di sette giorni fa, la composizione del governo Letta è frutto di un’operazione di mediazione meticolosa e in grado di rendere “digeribile” l’intero esecutivo alla base e al nocciolo duro sia del Partito Democratico sia del Popolo della Libertà.

Il discorso ovviamente si è complicato quando si è posto il problema di nominare i sottosegretari che, essendo ben quaranta caselle, registravano una maggior possibilità di scontentare parte del PDL o del PD. Da qui la controversia legata al sottosegretario Biancofiore, già spostata dalle pari opportunità alla funzione pubblica ancor prima di assegnargli formalmente una delega, o quella su Gianfranco Micciché e Cosimo Ferri. Malumori che probabilmente agli occhi dell’elettorato del centrodestra sono stati analoghi una volta appreso della nomina a viceministro dell’economia di Stefano Fassina.

Bisogna però dire che i primi giorni del governo guidato Enrico Letta sono già mediaticamente partiti col piede sbagliato. E non tanto per la vicenda legata a Micaela Biancofiore che ha concesso una discutibile intervista a “Repubblica” dieci minuti dopo l’appello lettiano di non esagerare e mantenersi sobri.

Ma perlopiù a causa dell’ormai sempiterna vicenda legata all’Imu, che rischia di essere il vero punto di rottura di tutto il governo d’unità nazionale.

Si è infatti delineata una dinamica politica non troppo dissimile da quella emersa durante le votazioni per il Presidente della Repubblica. Nel senso che gli occhi dell’opinione pubblica appare il PDL come il partito in grado di disporre la maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato e non il Partito Democratico.

Se in passato abbiamo assistito a partiti del 2% in grado di poter “ricattare” un’intera coalizione su singoli provvedimenti in quanto quel 2% era stato determinante per la vittoria dello schieramento stesso, qui assistiamo ad un centrodestra che cerca di imporre al governo i suoi cavalli di battaglia minacciando l’esistenza stessa dell’esecutivo. Con una differenza. Che il Pd non riesce con egual forza a portare avanti, anche al rischio di spaccatura, la sua agenda politica.

Questo perché il Pd ha senz’altro più da perdere da un ritorno alle elezioni, e dunque il PDL può permettersi di staccare la spina nel caso si colpiscano temo da sempre cari all’elettorato berlusconiano. Ma al tempo stesso il divario di strategia tra i due grandi partner di questo governo è macroscopico.

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Se per esempio il centrosinistra, dopo anni di elaborazione politica sul tema della cittadinanza data ai figli degli immigrati nati in Italia, si permette di proporre lo ius soli o provvedimenti analoghi si alzano gli strali del PDL contro la proposta. Se invece da parte del PdL c’è la tendenza a chiedere garanzie sull’Imposta Municipale Unica nella migliore delle ipotesi si derubrica il problema (esempio: sospendiamo la rata di giugno dell’Imu per rivedere in futuro la tassazione sulla casa), nella peggiore invece si cerca di andare incontro alle istanze pidilliene attraverso un’operazione di compromesso (esempio: Saccomanni si è insediato da poco, ma senz’altro faremo in modo di andare verso un’abolizione della tassa sulla prima cosa).

L’andazzo è testimoniato anche da alcuni atteggiamenti del centrodestra nei confronti del Pd. Se per esempio, durante la prima chiama per il Presidente della Repubblica, abbiamo assistito ad una paradossale scena in cui il nome proposto dal Pd era votato con convinzione dal PDL e con amarezza dal Pd (con Gasparri che, pur nell’intesa coi democratici, accusava Bersani di aver aperto il congresso del partito ad urne aperte) oggi assistiamo a Renato Brunetta che, a proposito del sottosegretari, segnala l’occupazione del centrosinistra di tutte le maggiori cariche istituzionali. Affermando che “ai democratici lasciamo due-tre sottosegretari”. Lasciamo, appunto. Come se il PDL fosse il king maker dell’operazione. Come se avesse la golden share dell’esecutivo.

E’ proprio vero. Berlusconi all’opposizione, anche quando non lo è formalmente, è un maestro. In grado di logorare nel migliore dei modi l’avversario. Al tempo stesso il Pd deve rendersi conto che non occorre essere eternamente supini e subalterni. Anche se si ha tutto da perdere da un ritorno alle urne.