Gli israeliani al voto per Israele e per Netanyahu

Pubblicato il 19 Marzo 2021 alle 10:36 Autore: Matteo Bulzomì

Martedì 23 marzo in Israele si terranno le quarte elezioni nel giro di due anni. Tuttavia questa volta sono in molti a pensare che il voto avrà esiti importanti, almeno nel medio termine. La posta in gioco infatti altro non è che il futuro politico del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, mai stato così in discussione. Inoltre, poiché Bibi è al governo da dodici anni consecutivi, una sua mancata rielezione deciderà inevitabilmente il corso della politica israeliana del futuro.

 

Come funziona il voto in Israele

Prima di presentare le caratteristiche e le tendenze di questa tornata elettorale occorre presentare, almeno per sommi capi, il sistema di voto in Israele. Lo Stato ebraico è una repubblica parlamentare in cui centrale è la figura del Primo Ministro, il fulcro del potere esecutivo. Il potere legislativo appartiene alla Knesset (in ebraico “assemblea”, nome tra l’altro usato per indicare la sinagoga), parlamento monocamerale di 120 seggi. Infine, la Corte Suprema detiene il potere giudiziario. Ad ogni elezione si rinnova la composizione della Knesset, il cui numero di deputati corrisponde ad una antica tradizione ebraica. 120 erano stati, nei tempi antichi, i membri del sinedrio. Per accedere al sinedrio moderno un partito non deve più contare sapienti o scribi tra i suoi candidati: basterà oltrepassare la soglia di sbarramento del 3,25%.

 

La sfida di Netanyahu

Come si è già accennato, questo giro di consultazioni deciderà il destino di Netanyahu. Il carisma che gli ha permesso di sbaragliare qualsiasi concorrente all’interno e all’esterno del suo partito, il Likud, potrebbe oggi non essere sufficiente. A livello personale la sua figura è compromessa da tre processi i cui capi d’accusa vanno dall’abuso di potere alla corruzione. A livello politico invece pesa il progressivo smottamento a destra dell’elettorato, sul quale egli ha modulato il programma degli ultimi esecutivi, con successi alterni. Da una parte infatti questa mossa lo ha reso il Primo Ministro più longevo, superando David Ben Gurion, il pater patriae di Israele. Dall’altra i continui compromessi con alleati di governo diversi (dalla destra ultraortodossa a quella laica) lo hanno esposto a sempre maggiori critiche.

 

Il Likud al potere

Nelle precedenti tornate elettorali il successo del Likud si è fondato su tre pilastri. Il primo era il carisma del suo leader, che gli ha permesso, anche in momenti di difficoltà, di avere l’ultima parola alle urne. Il secondo era la mancanza di personalità altrettanto carismatiche nei partiti di opposizione, che non sono mai stati in grado di fornire un’alternativa credibile. Il terzo infine erano le divisioni intrapartitiche e interpartitiche nell’opposizione, che hanno impedito ai partiti di coalizzarsi per porre una seria minaccia al Primo Ministro. In quest’ultima legislatura tuttavia qualcosa è cambiato. Sia il Likud che la coalizione di centro di Yesh Atid e Blu e Bianco hanno ottenuto lo stesso numero di seggi (35). Soltanto la crisi sanitaria innescata dal COVID-19 ha spinto i due soggetti a creare un governo di coalizione, esito che entrambi avevano cercato di evitare. Secondo l’accordo di governo, Netanyahu sarebbe stato il Primo Ministro per i primi 18 mesi, per poi passare il timone a Gantz. Tuttavia la diffidenza tra i due attori ha fatto sciogliere la coalizione dopo nemmeno un anno, in occasione delle discussioni sulla legge di bilancio.

 

La trappola della XXIII Knesset

Pur essendo stata breve (marzo 2020-marzo 2021), l’esperienza di governo con i centristi ha sconvolto il panorama politico israeliano. Non pochi cittadini infatti pensano che la seconda ondata di contagi da COVID-19 sia stata gestita male dal governo Netanyahu. Inoltre il congelamento dell’annessione degli insediamenti nella Valle del Giordano, conseguenza degli Accordi di Abramo, non è mai stata accettata dalla destra nazionalista. Il risultato più evidentemente è il rafforzamento del blocco di destra, l’unico al momento in grado di proporsi come alternativa al Primo Ministro uscente. La campagna elettorale perciò è divenuta dai primi giorni una lotta per l’egemonia a destra, con Netanyahu impegnato a tamponare le perdite dal suo partito.

 

La nuova strategia del Likud

Per poter rimanere al potere Bibi ha messo a punto una strategia articolata i tre punti. Il primo, nonché più importante, è la velocità con cui viene portata avanti la campagna vaccinale, che ha reso Israele il primo stato al mondo per percentuale di abitanti immunizzati. In questo modo il capo del Likud spera di poter lavare via l’onta della cattiva gestione della crisi sanitaria. In seconda battuta si è cercato di attirare il voto degli arabi promettendo maggiori investimenti nelle loro municipalità. Infine, Netanyahu sta cercando di capitalizzare i risultati degli Accordi di Abramo, grazie ai quali spera di ottenere due importanti risultati. Il primo è l’uscita di Israele dall’isolamento internazionale, conseguenza del dérapage nazionalista degli ultimi governi, che ha portato i negoziati con i palestinesi a un punto morto. Il secondo è la conferma di Netanyahu come guida dell’elettorato moderato.

 

Tenendo conto dell’andamento dei sondaggi da dicembre a oggi, queste potrebbero essere le tendenze che influenzeranno la composizione della prossima Knesset:

1. Il Likud è in recupero

Se gli israeliani avessero votato il giorno stesso della caduta del governo (il 23 dicembre), il Likud avrebbe perso almeno una decina di seggi. I moderati avrebbero infatti portato alla Knesset 25 parlamentari, il risultato peggiore dell’ultimo decennio. La campagna vaccinale, iniziata proprio in quei giorni, è stata una vera boccata d’ossigeno. Già a fine dicembre il partito era in risalita, e negli ultimi mesi è riuscito a tamponare le perdite attestandosi intorno ai 30 parlamentari, confermandosi come il primo in termini di voti.

 

2. Yesh Atid si conferma alla guida del centro (e di un’eventuale coallizione alternativa)

Yesh Atid si conferma alla guida del centro (e di un’eventuale coalizione alternativa). I dissapori tra Benny Gantz di Blu e Bianco e Yair Lapid di Yesh Atid si erano già fatti sentire durante l’esperienza di governo. Diversi membri di Yesh Atid ritenevano la coalizione con Netanyahu una scommessa persa in partenza, e il tempo ha dato loro ragione. Per questo motivo mentre prima Yesh Atid aveva pochi seggi di vantaggio su Blu e Bianco, adesso la situazione è cambiata. Da una parte Blu e Bianco rischierà di contrarsi di circa due terzi dei seggi, passando, pare, da 12 a 4. Dall’altra si prevede che Yesh Atid guadagnerà un paio di seggi, attestandosi, con 18 parlamentari, come secondo partito.

 

3. Vittoria relativa per le destre

Yamina e Tikvah Chadasha, guidati da Naftali Bennett e Gideon Sa’ar, quest’ultimo fuoriuscito dal Likud, condivideranno due caratteristiche. La prima sarà un enorme balzo in avanti che li porterà a moltiplicare i loro parlamentari (da 3 a circa 10 nel caso del primo e da 2 a circa 10 nel caso del secondo). La seconda è che in entrambi i casi si tratta di vittorie relative. Se si fosse andati alle urne a governo appena caduto, Yamina avrebbe ottenuto 15 seggi mentre Tikvah Chadasha addirittura 22. Questa enorme percentuale di consenso è stata mitigata dal successo della campagna vaccinale, che ha fatto registrare continue diminuzioni delle preferenze per entrambi i partiti.

 

4. I Labour sono di nuovo in pista

Per diverse settimane dopo la caduta del governo si è temuto che il Partito Laburista sarebbe scomparso dal panorama parlamentare. Il 24 gennaio invece il partito ha nominato una nuova segretaria: Merav Michaeli. Secondo i sondaggi si è trattato di una scelta fortunata. Da una parte infatti sembra essere sparito il rischio di non riuscire a superare la soglia di sbarramento. Dall’altra i Labour hanno riacquistato consensi e sperano di triplicare i propri seggi passando da 2 a 6. Più a sinistra sembra rimanere stabile Meretz, che dovrebbe vedersi riconfermati i suoi 4 parlamentari.

 

5. Gli arabi divisi rischiano grosso

A fine gennaio Ra’am ha annunciato la sua separazione dalla Lista Unita per correre in solitaria. La scelta è oggi più che mai azzardata. Se in questa legislatura Ra’am e la Lista Unita hanno portato insieme 15 rappresentanti (4 il primo, 11 il secondo), domani le cose potrebbero cambiare. La Lista Unita è data in discesa di tre seggi e secondo le proiezioni ne avrà 8. Ra’am invece sembra in serie difficoltà nel superare la soglia di sbarramento. Qualora non dovesse farcela, rischio piuttosto concreto, gli arabi si ritroverebbero rappresentati soltanto da 8 parlamentari, un risultato ancora più disastroso se visto alla luce del successo delle destre nazionaliste ebraiche.

 

6. I possibili aghi della bilancia

Restano invece stabili tre partiti religiosi. Nel panorama Haredi Shas e Giudaismo unito della Torah dovrebbero esprimere intorno gli 8 rappresentanti il primo e 7 il secondo, con variazioni minime. I Sionisti Religiosi invece passeranno probabilmente da 2 a 4. Nel campo della destra laica Israel Beitenu manterrà i suoi 7 seggi. Partiti come questi hanno fatto spesso nascere e morire coalizioni, e in uno scenario mai così frammentato nulla sembra far intendere che andrà diversamente.