Donald Crowhurst, uno dei tanti dannati nell’inferno blu

Pubblicato il 12 Ottobre 2020 alle 11:55 Autore: Nicolò Zuliani

“Chiunque rida di lui non conosce l’oceano. Non conosce la solitudine, i silenzi, e i mostri che ne possono uscire. A volte di carne e squame, più spesso di incubi e follia.”

“Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Al massimo, è stato complice della sua inquietudine”

Joseph Conrad, Tifone, 1902

Donald Crowhurst era figlio di un marinaio che fin da piccolo l’aveva portato in barca a vela nello stretto della Manica, dove temperature e correnti non sono uno scherzo. Appena adolescente si era arruolato in aeronautica, ma era stato espulso per motivi disciplinari dopo due anni. Era passato all’esercito, dove il copione s’era ripetuto. Donald è introverso e ha problemi caratteriali, alterna euforia ad aggressività: l’opposto di un buon militare, o di un buon marinaio.

Si mette a studiare ingegneria elettronica, si appassiona alle auto sportive. Fonda una piccola compagnia, la Electron Utilisation, e nella bottega dietro casa inventa il Navicator; una specie di navigatore satellitare ante litteram, che si calibrava a onde radio.

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Sposa Claire e ci fa tre figli. Come tutti gli introversi, si perde nei suoi mondi e nelle sue creazioni. Ci sono volte che i figli devono andare a bussare per ricordargli di venire a cena. In paese gli vogliono bene, è un allegrone che si fa vedere poco, ma è di compagnia.

Una volta inventato Navicator, Donald ha bisogno di investitori. Ne trova uno, Stanley Best, disposto a mantenerlo finché le cose non decollano. Dopo un paio d’anni, però, Stanley capisce di aver fatto un investimento sbagliato; si chiama fuori e chiede a Donald di restituirgli parte dei soldi. Messo alle strette, Donald apre il giornale e ha un’idea.

È il 1967

Buona parte del mondo è incredulo davanti alla possibilità che l’uomo possa camminare sulla luna. Diventa un’ossessione globale. La moda, l’architettura, la letteratura e i media parlano di viaggi intergalattici e nuove scoperte. L’Inghilterra capitalizza questa fame d’avventure sfruttando il suo elemento naturale: il mare.

Francis Chichester, su una barca a vela di 16 metri – senza satellite né tecnologia – completa il primo giro del mondo in solitaria, con un solo scalo in Australia. È un’impresa sovrumana che lascia gli appassionati a bocca aperta: non si pensava nemmeno fosse possibile.

La sfida successiva è ripetere la circumnavigazione senza scalo né assistenza.

Il Sunday Times lancia un bando: chiunque voglia partecipare deve presentarsi al porto di Plymouth e partire tra il 1 giugno e il 31 ottobre 1968. Chi tornerà per primo riceverà un trofeo e la somma di 5,000 sterline, pari a circa 13,000 euro di oggi. Se Donald vince, è a posto. Può ripagare Stanley, convincerlo che sta facendo un buon investimento e anzi, potrebbe attirare investitori da ogni parte del mondo.

Stanley resta interdetto da quella proposta, ma è troppo allettante per lasciarsela scappare. Offre a Donald un contratto: lui paga i costi per costruire una barca ed equipaggiarla. Se vince, dividono a metà il premio e i diritti sul Navicator. Se invece Donald perde la gara o si ritira, dovrà ripagargli tutti i soldi spesi. Significa che perderebbe l’azienda, il Navicator, tutti i risparmi e dovrebbe vendere la casa dove vivono sua moglie e i suoi figli.

Donald accetta.

La notizia dell’uomo qualunque che partecipa alla competizione nautica più difficile al mondo scatena l’entusiasmo della classe operaia. Donald Crowhurst, il piccolo artigiano che compete contro mostri sacri o milionari. La moglie e i figli per strada vengono salutati come celebrità. Ci sono interviste, fotografie, scritte per strada.

Per risparmiare sui costi, Donald progetta lui stesso l’imbarcazione. Disegna un trimarano, scafo che garantisce una maggiore velocità di uno scafo singolo, ma a caro prezzo: è instabile. Se si capovolge, rimetterlo dritto è difficilissimo.

Stanley lo pressa. Da giugno sono passati cinque mesi, e sono già partiti Bernard Moitessier, un francese che vede il viaggio come “una ricerca spirituale”. Nigel Tetley, un ufficiale della Marina militare anche lui con un trimarano. Robin Knox-Johnson, un tenente di vascello su un minuscolo guscio di noce. Donald aggiunge allo scafo un sistema di sensori, pompe e contrappesi per renderlo più solido.

Impiega un’enormità di tempo.

La rotta da seguire è semplice quanto spietata: attraversare l’oceano Atlantico, scendere in Africa, doppiare Capo di Buona speranza, attraversare l’oceano Indiano passando sotto l’Australia e concludere in bellezza doppiando Capo Horn, dove l’aria gelida dell’Antartide si scontra con quella rovente del sudamerica ed è universalmente riconosciuto dai marinai come il posto più pericoloso e letale del pianeta.

Arrivato al giorno prima della scadenza, né lo scafo né i sensori sono stati testati. Ci sono falle e imbarca acqua, all’interno saltano viti a manciate. Quando un marinaio esperto ci mette piede per una consulenza, fornisce un parere inglese quanto lapidario: «Quest’affare è una truffa». Ma c’è anche un problema peggiore: Donald non conosce il mare aperto.

Non è mai uscito dalla Manica

Crowhurst assume un giornalista, Rodney Wallworth, perché si occupi dei rapporti con la stampa. Ufficialmente le cose vanno bene, lo scafo è pronto e secondo i suoi calcoli “riuscirà a completare il giro in 130 giorni”. La dichiarazione infiamma l’opinione pubblica: il trimarano di Crowhurst con il suo Navicator è davvero tanto potente?

È davvero capace di un’impresa simile?

In realtà, all’alba della partenza, Donald è in lacrime in camera da letto di sua moglie. Le confessa tutto. Dice che la barca non è affatto pronta e forse, facendolo, la sta implicitamente pregando di fermarlo. Ma c’è di mezzo la casa con i bambini, o forse la donna non ha ben chiaro cosa significhi circumnavigare il globo terracqueo in 130 giorni, su una barca a vela che fa acqua, da soli.

Parte tra fanfare, applausi, cori e incitamenti della classe operaia

A bordo è un disastro. Il Teignmouth Electron è lento, imbarca acqua che entra nel pozzetto del motore e del generatore elettrico, mandandolo in corto circuito. Dopo 24 ore riesce tra mille difficoltà a comunicare la sua posizione millantando ottimismo, ma ha fatto ben poco. Nel 1967 non esistono GPS, droni o satelliti.

Può riuscire a tenere su le bugie, basta dare comunicazioni vaghe e sporadiche incolpando il tempo e i contrattempi. Manda frasi incomprensibili tipo “ho fatto un party impegnativo con le sirene nei roaring ‘40” che mettono a dura prova Wallworth, costretto a improvvisare.

Donald passa notti insonni, cade di continuo fuoribordo, mangia e beve poco, angosciato dagli aggiornamenti degli altri marinai che sente alla radio. A dicembre, sei settimane dalla partenza, scrive di aver percorso in un giorno 243 miglia: non è solo un dato eccezionale, è un record mondiale. I giornali lo spostano da un trafiletto alla prima pagina, mentre in realtà lui è ancora nell’Atlantico, poco sotto le colonne d’Ercole. Decide di mantenere il silenzio radio. A casa c’è una mappa con i suoi figli che aggiornano la posizione di papà con uno spillo.

Per tre mesi non sentono più nulla

A bordo, Donald capisce di essere finito. Aveva deciso di tenere due diari di bordo; uno reale e uno da comunicare alla stampa, per poi recuperare strada facendo. Ma la barca è un colabrodo e lui passa intere giornate a combatterci. A gennaio raggiunge Rio de Janeiro mentre dice di essere in vista di Capo di Buona speranza.

È impossibile recuperi.
È troppo indietro.

Ad aprile, buona parte dei marinai ha mollato perché esausti, in crisi psicotica o con problemi allo scafo. Knox-Johnson è in testa seguito da Tetley. Moitessier doppia Capo di Buona speranza, poi manda un telegramma dove dice che non intende né tornare a terra né vincere la gara: vuole ricominciare il giro.

“Lo faccio perché amo il mare e voglio salvarmi l’anima”, dice.
Carica sua moglie a bordo e abbandona.

A queste novità, Crowhurst ha un’idea: restare poco sopra Capo Horn dicendo di avere fatto il giro e di essere sulla  via del ritorno. C’è il problema dei diari, però. Sì, può scrivere di essere in un punto e non in un altro, ma l’oceano ha correnti e temporali. Quelli non può inventarli; se sbaglia nello scrivere che a tal giorno ha percorso 200 miglia in un quadrante dove c’è vento contrario forza 9, verrà sbugiardato. La giuria è composta da marinai inglesi veterani, cioè i migliori del mondo, e li analizzeranno con cura.

Ma non se arriva ultimo.

Avrà comunque dimostrato di essere riuscito nell’impresa, e sarà quello simpatico e promettente che non ce l’ha fatta, ma almeno ha dimostrato che anche un uomo del popolo può competere. Nessuno va a leggere i diari o a contestare l’ultimo posto. Dopo tre mesi, rompe il silenzio radio mandando un telegramma dove informa di avere appena doppiato Capo Horn e di essere sulla via del ritorno, poi chiede informazioni sugli altri concorrenti in tono scherzoso. A casa, sua moglie e i suo figli fanno una festa.

I diari e le registrazioni audio cambiano.

All’inizio, Donald è l’uomo che tutti conoscono. Scrive poemetti ironici, racconti romantici e poesie sul mare. A questo punto il tono cambia. C’è solitudine, depressione e una lenta, costante discesa verso la pazzia. Mescola ricordi d’infanzia a riflessioni sulla vita, su Dio e la disonestà umana, cercando di creare una formula matematica capace di rappresentare le verità universali. Litiga furiosamente con Einstein e la sua teoria della relatività. Dall’Inghilterra lo informano che è solo due settimane dietro Tetley. Arriverà terzo, il che è ancora meglio.

Taglia il traguardo Knox-Johnson

Ottiene il premio e i soldi, ma era una vittoria così scontata, e aveva fatto un viaggio talmente piatto e senza incidenti, che l’attenzione del pubblico si concentra sugli altri. Tetley, con la barca ridotta a rottame, e soprattutto Donald Crowhurst, l’uomo qualunque. Appena Tetley viene a sapere di averlo alle calcagna, si mette fretta e porta al limite lo scafo già malandato. Al largo del Portogallo combatte contro una tempesta invece di assecondarla: un albero si spacca e lui ha appena il tempo di gettarsi nella zattera di salvataggio e guardarla affondare.

Crowhurst è l’ultimo marinaio rimasto in gara.
Non è l’ultimo: è il secondo classificato, e quello più interessante.

Il Teignmouth Electron cade a pezzi. Donald lavora disperatamente per riparare la radio e riuscire a parlare con sua moglie, ma non ci riesce. Il 22 giugno riesce a mandare messaggi in codice Morse, mentre va alla deriva nel mar dei Sargassi. Solo, senza contatti, schiacciato dai sensi di colpa, dalla vergogna e dalle conseguenze, scrive un pamphlet di 25,000 parole sul libero arbitrio, metafisica, percezione, l’origine di Dio e la possibilità di isolare l’anima dal corpo. Dall’Inghilterra, Hallworth lo avverte che nel porto di Plymouth si sono radunate 100,000 persone per dargli il bentornato.

Sua moglie e i bambini vorrebbero incontrarlo prima e salire a bordo sulle isole Sorlinghe, così da arrivare in porto insieme. Donald manda un telegramma dove gli dice di non venire, e chiede ripetutamente la conferma del recapito. Claire ci resta male, ma immagina sia perché c’è mare mosso e il marito voglia risparmiare ai bambini il mal di mare. Il diario di Donald, da quel telegramma, diventa delirante. Il 1 luglio scrive una completa e sincera confessione di quello che ha fatto.

Le sue ultime parole sono queste.

La Teignmouth Electron viene trovata alla deriva nove giorni dopo.

Di lui non c’è traccia

Knox-Johnson dona il premio alla moglie e ai figli, che anche grazie alle collette del paese riescono a tirare avanti. Il Times compra i diari di Crowhurst e ne detiene i diritti, trasformandolo in un libro. I suoi figli crescono. Il maggiore, Simon, lo acquista. Racconta che nel modo di scrivere e di scherzare riconosce suo padre, ma poi comincia a scivolare via, come se qualcuno avesse preso le parole di suo padre e ne avesse distorto le parole con una voce grottesca, poi minacciosa. Qualcuno che non conosce, ma i cui vaniloqui “sono un vortice in cui bisogna stare attenti a non lasciarsi trascinare”.

I resti della Teignmouth Electron vengono abbandonati su una spiaggia delle Cayman, dove il mare e i temporali, anno dopo anno, la stanno reclamando.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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