Il fallimento del Cop15 ed i nuovi equilibri mondiali

Pubblicato il 25 Dicembre 2009 alle 22:00 Autore: Redazione
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Il fallimento del Cop15 ed i nuovi equilibri mondiali

 

Il fallimento della conferenza Onu sul clima mette in luce la crisi di una stagione segnata da meeting internazionali voluti e gestiti univocamente dai paesi occidentali che incrementavano così il proprio soft power. Il ruolo di India e Cina e la nascita del gruppo Basic.

 

Il paradosso dell’esito del Cop 15, ossia della 15ma conferenza Onu sui cambiamenti climatici, non sta tanto nell’incapacità di trovare un accordo proprio mentre eventi atmosferici rigidissimi ed in rapido cambiamento hanno paralizzato treni ed aerei di mezza Europa (simbolo evidente, semmai ce ne fosse bisogno, dell’effettiva incidenza del global warming sulla nostra vita), quanto nel fatto che su di esso si fossero riversate aspettative salvifiche. E così il vero risultato della conferenza di Copenaghen è stato il venire alla luce di un gruppo di coordinamento tra i paesi emergenti ribattezzato “gruppo BASIC”.

Il Trattato di Copenaghen avrebbe dovuto essere un’intesa internazione di valore legale che impegnava tutti gli stati ad una riduzione delle emissioni di gas serra per il contenimento della temperatura, in grado di sostituire il disatteso Trattato di Kyoto, in scadenza per il 2012. Si sarebbe trattato, in sostanza, di disegnare una nuova economia sempre meno dipendente dai combustibili fossili. Seguendo queste aspirazioni il vertice nella capitale danese è stato un vero fiasco: nessun trattato di valore legale, nessun vincolo per gli stati firmatari. E soprattutto è mancato il consenso intorno alla proposta finale al punto che non solo molti stati hanno definito non condivisibile ed inconcludente il Copenhagen Accord, ma quest’ultimo non è stato neppure ratificato dall’assemblea plenaria dei 192 paesi che aderiscono alla convenzione climatica dell’Onu. Ma c’è un nuovo impegno: quello di riconvocare l’assemblea entro l’anno prossimo per definire meglio la strategia di riduzione delle emissioni entro il 2020, o forse per far dimenticare la figuraccia di quest’anno; sembra già sicura la sede di Città del Messico.

Sappiamo che la principale causa del global warming è ritenuta essere l’effetto serra, causato soprattutto dai gas serra generati dall’attività dell’uomo; tra questi il biossido di carbonio (CO2) è il più importante. Il Fourth Assessment Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite rileva che le emissioni di gas serra sono aumentate del 70% tra il 1970 e il 2004. In particolare il CO2 – responsabile del 77% delle emissioni totali – è cresciuto dell’80% (da 21 a 38 miliardi di tonnellate). L’aumento più significativo si è registrato durante il decennio 1995–2004. La crescita delle emissioni di gas serra è stata principalmente causata dall’aumento della produzione di energia, dal trasporto e dall’industria in generale. Secondo uno studio prodotto dall’European Climate Foundation (ECF) in uno scenario caratterizzato dal “business as usual” le emissioni potrebbero aumentare nel lungo periodo fino a raggiungere 70 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente nel 2030. Questo si tradurrebbe in un aumento della temperatura di oltre 3°C, superando così l’obiettivo dei 2°C entro la fine del secolo indicato dalla comunità scientifica.

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