Mattarella, il rigore per voltare pagina?

Pubblicato il 1 Febbraio 2015 alle 16:25 Autore: Gabriele Maestri
sergio mattarella

Il rito dunque si è concluso: l’Italia repubblicana ha da ieri (e avrà con tutti i crismi dal giuramento di martedì) il suo 12° presidente, anche se i mandati presidenziali sono 13, visto il “doppio regno” – evento probabilmente non replicabile – di Giorgio Napolitano.

Padre del Mattarellum

Figura nota più agli studiosi, ai cronisti parlamentari e ai “malati di politica” che alla gente comune, Sergio Mattarella probabilmente porterà al Quirinale uno stile personale, fatto di poche parole in libertà (nella nobile tradizione sicula) e di una fine attenzione per le regole, tipica dello studioso di diritto parlamentare. Uno stile emerso nel concepire la legge elettorale usata tra il 1994 e il 2001 – legge complessa e meditata, per la quale chi scrive non ha mai nascosto la preferenza – e confermato in seguito, soprattutto durante l’attività alla Corte costituzionale. Tutto questo dovrebbe essere confermato, anche se notarlo non sarà facile: magari più di un “no” a Renzi arriverà da Mattarella, ma nel massimo utilizzo della moral suasion e, soprattutto, in pieno silenzio stampa. Roba da far impazzire quirinalisti e retroscenisti, che faranno fatica anche a dare voce ai tradizionali «ambienti vicini al Quirinale».

Il protagonismo di Renzi

Sospeso il discorso sul Presidente, che dire su chi lo ha portato al Quirinale, facendogli percorrere la quarantina di passi che distanziano il palazzo della Repubblica dalla foresteria della Consulta (in cui Mattarella alloggia)? I riflettori erano tutti per Matteo Renzi, con tutti intenti a guardarlo come protagonista di una partita continua, in cui lui e i suoi fedelissimi dovevano stare attenti a non farsi rubare la palla da varie categorie di avversari, compresi quelli dotati di tessera Pd. Stavolta Renzi i conti li ha fatti bene. La quota di 665 è più alta del prevedibile e del necessario, dice quanto Mattarella fosse “potabile” anche per altri, specie per i vecchi compagni di scudo crociato (e lo aveva capito già Bersani due anni fa, formando la famigerata terna quirinalizia da sottoporre agli altri partiti), ma è più bassa di 672, cioè i due terzi degli elettori presidenziali: spendere Mattarella anche solo al terzo scrutinio significava bruciarlo, senz’appello.

Aspettando il terzo giorno e con il suo appello, invece, Renzi ha messo pressione ad alleati e avversari: ha portato quasi tutto il Nuovo centrodestra a votare Mattarella – un voto tellurico, vista la girandola di dimissioni e mezze dimissioni – e ha causato un’imbarazzante emorragia di voti in Forza Italia. Sull’identità dei soccorritori del vincitore si possono avere dubbi, ma il tentativo di giustificare le mancate schede bianche coi voti a Verdini e Razzi (!) fatto da certi notabili forzisti appare ridicolo.

Mattarella negli anni '90

Mattarella negli anni ’90

Le divisioni nel mondo Dc

Mattarella ha messo d’accordo molti, anche tra chi non lo ha votato – tranne la Lega Nord e Fratelli d’Italia, uniti nel certificare l’apparente morte del centrodestra. Colpisce l’atteggiamento del blog di Beppe Grillo, che prima ospita un intervento duro contro l’ex ministro e poi, a elezione avvenuta, affida allo storico Aldo Giannuli un’analisi accomodante (“Persona rispettabilissima e, per certi versi, migliore anche di Prodi”). E i fanatici della cronaca politica hanno accolto con stupore gli applausi sorridenti di Roberto Formigoni davanti all’elezione dell’uomo che nel 1995, nei giorni della frattura violenta tra i Popolari, stava con Gerardo Bianco e attaccava gelido il segretario sfiduciato e non dimissionario Rocco Buttiglione (cui era legato Formigoni): “Come sta Pinochet? Ma che dico, – appuntò diligente Massimo Gramellini – quello è un colonnello greco, un generale argentino, un uomo divorato da un ego sterminato”. Dopo vent’anni Formigoni ci è passato sopra; Berlusconi, invece, le dimissioni di Mattarella anti-legge Mammì forse non le ha digerite dal 1990 .

Da ultimo, alla fatidica quarta votazione – quella che impallinò Prodi nel 2013 – il premier è riuscito a tenere unito tutto il Partito democratico sul nome scelto, senza sbandamenti visibili: pochi ci avrebbero scommesso. Pensare però che Renzi si sia fidato dei parlamentari è un errore: tutto è stato controllato al millimetro. Lo urlano le undici “versioni di Mattarella” emerse dallo spoglio delle schede, alcune di certo mai usate dal nuovo inquilino del Quirinale. Se qualche numero fosse stato fuori posto, qualche reazione politica sarebbe scattata, ma non ce n’è stato bisogno.

Di fronte a quest’avvilente conta ai limiti del lecito – fosse avvenuta in cabine e urne normali, molte schede sarebbero state nulle – riemergono le parole di Francesco Cossiga, pronunciate a Palazzo Madama il 29 aprile 2006, in un’aula spaccata sul voto per la presidenza tra Franco Marini e Giulio Andreotti. Il giorno prima si era scatenato il balletto dei nomi a geometria variabile, complice la presenza di un altro Marini tra i senatori e di qualche furbo che sulla scheda aveva scritto il nome di un inesistente Francesco Marini, precipitando i segretari nel caos: «Le istituzioni – aveva detto Cossiga a un costernato Oscar Luigi Scalfaro che presiedeva la seduta – sono uccise, più che dalle istituzioni, dal ridicolo”. Basterà il rigore riconosciuto da tanti a Sergio Mattarella per voltare pagina una volta per tutte?

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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