“A special status”: la parabola di Londra nell’Unione Europea

Pubblicato il 28 Dicembre 2020 alle 21:17 Autore: Rodolfo Fabbri

“L’Inghilterra è una potenza marittima…ha un’economia, degli interessi e delle tradizioni troppo diverse dai sei Stati continentali che compongono la Comunità Economica Europea”. Con queste parole, Il 14 gennaio 1963, il Presidente francese Charles de Gaulle annunciava il suo veto all’ingresso del Regno Unito nella CEE. L’ex generale, che bloccò la richiesta d’ingresso britannica anche nel 1967, temeva la vicinanza di Londra a Washington, da cui voleva mantenere un’orgogliosa distanza. Il Regno Unito entrò nella CEE solo il 1 gennaio 1973, quattro anni dopo la dipartita dall’Eliseo di De Gaulle.

Il referendum del 1975

La CEE era allora fondamentalmente una grande area di mercato unico e in quanto tale interessava più i conservatori dei laburisti. I Tories avevano formalizzato la richiesta d’ingresso nel 1961 e ne avevano condotto le negoziazioni sotto la premiership di Edward Heath. Al contrario, il Labour temeva che l’Europa business-oriented potesse minare le conquiste sindacali e sociali ottenute dal partito. Nel 1975 il premier laburista Harold Wilson, che faticava a mantenere il controllo su un partito sempre più critico verso la CEE, indisse un referendum sulla permanenza nel mercato unico. A favore del “Remain” si schierò lo stesso Wilson e l’opposizione conservatrice della neo-leader Margaret Thatcher, mentre per il “Leave” c’erano larghi settori del Partito Laburista (tra cui un giovane Jeremy Corbyn) e l’influente deputato di destra Enoch Powell. L’esito fu plebiscitario: il 67% degli elettori votò per la permanenza nella Comunità.

La premiership di Margaret Thatcher

Nel 1979, Margaret Thatcher vinse le elezioni e divenne il primo premier donna del Regno Unito. Al suo primo Consiglio Europeo, la leader conservatrice si esibì in un deciso intervento che passò alla storia per l’espressione I want my money back. Thatcher criticava il fatto che i contributi britannici alla CEE fossero superiori a quanto Londra riceveva. La “battaglia del budget” della Lady di Ferro ebbe successo: negli anni successivi venne rimodulato il sistema dei contributi europei a vantaggio del Regno Unito.

Il rapporto di Thatcher con l’Europa non fu certo facile: la leader conservatrice rimarcò più volte la sua ostilità a qualsiasi tipo di unione politica. Tuttavia, finì per accettare il maggior utilizzo della maggioranza qualificata e l’aumento di competenze del Parlamento Europeo decisi con l’Atto Unico Europeo del 1986. L’opposizione laburista era però ancora più anti-europeista di Thatcher: alle elezioni del 1983, il loro programma prevedeva l’uscita dalla CEE senza referendum. Dopo la netta sconfitta, il partito cambiò rotta e si spostò su posizioni più europeiste. L’esperienza di governo della Thatcher si concluse per questioni europee. La Lady di Ferro si dimise nel 1990 per divergenze con il suo partito, che a differenza della premier appoggiava l’ingresso britannico nel Sistema Monetario Europeo.

L’adozione del trattato di Maastricht

La questione europea fu tra i dossier principali del successore di Thatcher, il conservatore John Major. Il nuovo premier negoziò prima l’ingresso e poi la traumatica uscita della sterlina dal Sistema Monetario Europeo, di cui era un convinto sostenitore. Soprattutto, fu Major a negoziare il Trattato di Maastricht, che trasformò la CEE in Unione Europea, sanciva la nascita dell’unione monetaria e allargava di molto le competenze comunitarie. Il successore di Thatcher negoziò un “opt-out” che esentava il Regno Unito dall’adozione della moneta unica e dall’adottare il capitolo sociale del trattato. La ratifica avvenne non senza difficoltà: alcuni deputati conservatori rifiutarono di approvare il trattato in parlamento. Molti “Maastricht Rebels” (tra cui Nigel Farage) lasciarono il Partito Conservatore per fondare UKIP, il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, movimento che aveva come unico obiettivo l’uscita del Paese dall’Unione Europea.

Il periodo del New Labour

Alle elezioni del 1997, il dominio conservatore che durava da 18 anni venne interrotto dal netto successo di Tony Blair, giovane nuovo leader laburista. Blair aveva rivoluzionato il proprio partito in senso centrista e chiaramente europeista, assumendo una posizione quasi unica nella storia di un grande partito britannico. Tra i primi atti dell’amministrazione Blair ci furono la revoca dell’opt-out sul capitolo sociale di Maastricht e l’adozione del Trattato di Amsterdam. In quest’ultimo, venne però ufficializzata l’esclusione del Regno Unito dal sistema Schengen, a cui Londra poteva decidere di aderire caso per caso, previa approvazione di tutti gli altri Stati Membri.

Blair era anche un fautore dell’ingresso del suo Paese nell’Euro: il suo governo decise che, qualora l’adozione della moneta unica avesse portato benefici in cinque punti chiave, avrebbe sottoposto la questione a referendum. Tuttavia, questo non avvenne mai e l’idea fu accantonata. Il suo successore, l’ex “gemello” Gordon Brown, negoziò nel 2007 il Trattato di Lisbona, da cui ottenne l’opt-out per la Carta dei Diritti Fondamentali e un “opt-in caso per caso” per l’Area di Libertà, Sicurezza e Giustizia. L’ulteriore allargamento dei poteri comunitari approvato a Lisbona, unito alla crisi economica e finanziaria aumentarono l’euroscetticismo britannico, che era stato ai minimi nel periodo blairiano.

Verso la Brexit

Negli anni di opposizione ai governi del “New Labour”, la posizione sull’UE del Partito Conservatore si fece via via più dura. Nel 2009, i Tories lasciarono il Partito Popolare Europeo e fondarono il gruppo euroscettico dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR). La vittoria elettorale di David Cameron del 2010 non portò però a stravolgimenti con Bruxelles, in quanto il leader conservatore fu costretto a un governo di coalizione con i liberal-democratici, il partito più europeista del panorama britannico. Le elezioni europee del 2014 diedero tuttavia un segnale chiaro: UKIP divenne il primo partito con il 27.7% dei voti. Il montante euroscetticismo dell’opinione pubblica, insieme al successo oltre le aspettative di Cameron alle politiche del 2015, portarono il Primo Ministro, ormai libero dall’alleanza con i lib-dem e pressato da un Partito Conservatore sempre più euroscettico, ad indire un nuovo referendum sulla permanenza nell’Unione Europea.

Lo status speciale

Prima del referendum, Cameron negoziò per il suo Paese “uno status speciale all’interno dell’Unione”. Il Regno Unito avrebbe potuto frenare flussi migratori “eccezionali” dai Paesi UE e ottenne di rifiutare ufficialmente la formula di “Unione sempre più stretta tra i popoli europei”. L’accordo fu approvato da Bruxelles, ma essendo formalmente legato al successo del “Remain” nel referendum non entrò mai in vigore. Il successo del “Leave” portò alle dimissioni di Cameron che, come Wilson 41 anni prima, si era speso per il “Remain”, pur guidando un partito composto principalmente da “Leavers”.

Gli ultimi sviluppi

Il resto è storia recente. Theresa May sostituì Cameron e negoziò un accordo per cui il Regno Unito rimaneva di fatto nell’unione doganale europea. Ciò era considerato irricevibile per i Brexiteers, che bocciarono l’accordo in Parlamento per ben tre volte. May venne perciò sostituita dal più radicale Boris Johnson, che ha negoziato prima un accordo politico, con cui Londra usciva dall’unione doganale, lasciando uno status speciale all’Irlanda del Nord. Lo scorso 24 dicembre, Londra e Bruxelles hanno raggiunto al fotofinish un accordo commerciale.

Nei quattro anni e mezzo successivi al referendum, i cittadini britannici sono andati alle urne tre volte. Le politiche del 2017 e del 2019 sono state vinte dai conservatori, mentre le europee del 2019 hanno visto l’affermazione del “Brexit Party”. Non si può dunque dire che Brexit sia avvenuta contro la volontà dei cittadini britannici. Per valutarne le conseguenze, è ancora decisamente presto. Time will tell, come si dice Oltremanica.