Aboliamo il liceo classico? Caso mai facciamone un modello per altri indirizzi di studio

Pubblicato il 14 Ottobre 2014 alle 19:57 Autore: Andrea Mariuzzo

Negli ultimi giorni ha suscitato vivaci reazioni, sia di critica che di apprezzamento, la presa di posizione del noto economista Michele Boldrin. A margine di alcune considerazioni decisamente critiche sulla proposta governativa di intervento riformatore contenuta nel rapporto La buona scuola espresse in una intervista-lezione alla redazione del progetto di e-learnig partecipativo Oilproject, lo studioso ha abbozzato i caratteri di una riforma alternativa, incentrata tra l’altro sulla sostanziale abolizione, o quantomeno sul profondo ridimensionamento, dell’offerta formativa rappresentata dal liceo classico. Come l’autore ha poi specificato intervenendo sul sito noise From Amerika, l’istruzione classica sarebbe il retaggio di una concezione superata dell’organizzazione della cultura. Essa impartitebbe insegnamenti inutili sul piano della comprensione del mondo contemporaneo e di educare a una visione del mondo

in cui, anzitutto, conta lo status ricevuto e conta la retorica nell’arena pubblica, conta il saper argomentare la propria posizione e non contano i fatti bruti. Un modello del mondo in cui l’efficienza ed il cambiamento devono sempre cedere il posto alla tradizione,

e in cui, in definitiva, si perpetua l’idea che un certo bagaglio di competenze sia intrinsecamente superiore. Da tutto ciò deriverebbero la scarsa attenzione al ruolo professionalizzante della scuola confermato anche dal governo Renzi, e la tendenza tutta italiana ad assorbire le energie intellettuali migliori in un cammino di formazione destinato a “corromperle” e a renderle sostanzialmente inutili sul piano lavorativo.

sds6

All’attuale composizione di fatto gerarchica della scuola secondaria, Boldrin suggerisce di sostituire un quinquennio post-elementare unitario, in cui siano presenti tutte le materie fondamentali “per capire il mondo in cui vivono ed essere capaci di averci un ruolo produttivo”, seguito da corsi biennali di avviamento al lavoro o agli studi superiori, con ampia possibilità per gli studenti di “confezionarsi” un curriculum scelto secondo le proprie attitudini e i propri orientamenti. Lì sarebbe relegata la possibilità di accedere, tra le altre opzioni, anche a una rapidissima introduzione alla cultura classica.

Questa ipotesi interpretativa è un intreccio di osservazioni lucide e parzialmente condivisibili, asserzioni solo parzialmente esatte e interpretazioni distorte al fine di “spararla grossa” ormai quasi inestricabile. È bene quindi riformulare i problemi sul tappeto.

Al di là dell’annoso dibattito internazionale sulla loro validità metodologica e sull’effettivo apporto conoscitivo garantito dai quesiti, alcuni punti di partenza possono essere le rilevazioni sull’Italia del Programme for International Student Assessment (PISA) promosso dall’OCSE nel 2012 e l’aggregazione compiuta dalla Fondazione Giovanni Agnelli dei sondaggi compiuti tra le matricole universitarie raccolte per provenienza scolastica in diverse regioni italiane, fonti che per ampiezza dei campioni, focus su terreni di comparazione piuttosto solidi e sostanziale convergenza delle conclusioni possono rappresentare, se non la base per un paper rigoroso, quantomeno materiale per la discussione su un blog.

I dati che mi interessa mettere in evidenza sono essenzialmente questi. Da un lato, l’indice di variabilità dei risultati tra i diversi istituti scolastici è in Italia stabilmente più alto della media. Dall’altro, sebbene gli istituti tecnici riescano ad avere, specie al centro-nord, alcune singole performance di rilievo, nel grosso dei casi la solidità del profitto e la rapidità dell’adattamento allo studio universitario trovano migliori garanzie nella formazione liceale. Non solo nel liceo classico, sia chiaro, ma in tutte le scuole il cui progetto educativo di base sia caratterizzato da una particolare attenzione alla cultura generale arricchita di un orientamento di studi caratterizzante chiaramente strutturato verso un ambito del sapere (letterario, scientifico, linguistico-culturale, sociale, tecnologico).

Questo dato, peraltro, si collega con un’impressione diffusa tra i docenti universitari, ovvero tra coloro che devono valutare l’operato complessivo delle scuole secondarie in termini di bagaglio culturale e di consapevolezza delle proprie inclinazioni e attitudini. Se la scelta universitaria seguisse le quote espresse dai diplomati ai licei, la distribuzione nelle diverse aree sarebbe sostanzialmente equilibrata, con una minoranza consapevole della propria opzione professionale “drastica” nei corsi di studio letterari o nelle scienze sociali “soft”, una presenza maggioritaria nei corsi di laurea professionalizzanti, e un nucleo nutrito, proveniente peraltro anche dalla formazione classica,dedicato allo studio delle scienze “pure”. I veri squilibri nascono dalla crescente presenza in corsi di laurea a vocazione umanistico-sociale di diplomati in istituti a stampo tecnico-tecnologico, evidentemente non intenzionati a portare avanti simile vocazione per mancanza di interesse o perché ritengono di aver ricevuto una preparazione inadeguata, e che quindi partono alla ricerca di altri campi di formazione spesso privi delle nozioni e degli schemi concettuali di base.

Per Boldrin questo andamento si spiega come effetto di una “selezione positiva”: al liceo classico, e in subordine agli altri licei, che a causa del nome vivono nella mentalità diffusa di una sorta di “luce riflessa” dalla scuola “regina”, si iscrivono generalmente gli studenti più brillanti, proprio per l’errata concezione gerarchica che ancora presiede alla scelta scolastica; quindi i risultati migliori dipendono dalle qualità individuali più che dall’effetto del percorso scolastico.

Per quanto mi riguarda, non è scorretto vedere nel frequente successo formativo dei licei una sorta di “profezia che si autoavvera”: la convinzione comune che i licei siano scuole migliori finisce per renderli davvero ambienti di studio e di lavoro più efficaci. Anzi, io partirei proprio da qui per formulare qualche ipotesi su che cosa distingue il percorso liceale rispetto a quello tecnico:

  • I licei, essendo percepiti come una opzione di studio “alta”, saranno scelti con maggiore probabilità da chi nei loro programmi trova gli stimoli più adeguati a impegnarsi nello studio e a crescere culturalmente,  e con minore probabilità da chi vi vede un ripiego o una scelta obbligata (anche se non mancano, pur diventando sempre più residuali, rampolli di famiglie della buona borghesia imprenditoriale e professionale per cui l’iscrizione al liceo è un obbligo mal digerito).
  • Almeno fino alla crisi determinata dalla sempre più difficoltosa sostituzione dei pensionati con altri posti di ruolo, i licei hanno garantito rispetto ad altre scuole una maggiore continuità didattica dovuta alla minore frequenza con cui i titolari di cattedra si spostavano.
  • Gli istituti tecnici offrono spesso curricula parcellizzati in brevi periodi di studio settimanali di discipline tra loro distanti nei metodi e negli obiettivi formativi, frutto di aggiustamenti estemporanei sedimentatisi nel corso dei decenni, e difficili da presentare in veste organica da parte dei docenti. Il quinquennio dei licei, invece, forse proprio a causa della “tradizione” che li supporta, si caratterizza per un andamento impostato sullo studio, ad adeguato livello di approfondimento, di poche discipline, tra loro interconnesse fino a formare un indirizzo di studio riconoscibile anche perché impartito da docenti dotati di un background comune.

Ricapitolando, i percorsi liceali sembrano caratterizzarsi con maggiore frequenza rispetto ai tecnici per un relativamente elevato match tra percorso formativo  e attitudini dell’allievo, per una più consueta continuità didattica (con tutta la possibilità di sperimentare e rodare progetti didattici ordinari e integrativi e le collaborazioni formali e informali tra docenti che ne consegue), e per una più chiara coerenza nel curriculum offerto. Si tratta di elementi che qualunque esperto di pedagogia è pronto a ritenere assolutamente fondamentali per un’esperienza di apprendimento e di maturazione ricca e positiva da parte di un adolescente. A conoscere per sommi capi il dibattito sul tema, sono le caratteristiche per offrire le quali al maggior numero possibile di allievi si è sperimentata negli USA, a partire da fine XIX secolo, la comprehensive high school, il soggetto istituzionale che tra apprezzamenti e rifiuti ha rappresentato il fulcro del dibattito internazionale sulle istituzioni scolastiche secondarie almeno per tutto il secondo dopoguerra. Nei progetti originari, e nelle realizzazioni che meglio hanno funzionato come supporto alla formazione e alla promozione sociale, essa non appare una sorta di media unica prolungata in cui tutti gli studenti sono tenuti ad appiattirsi sullo stesso percorso, ma caso mai una camera di raccolta in cui alla formazione generale condivisa (lingua madre, matematica, scienze, storia, geografia, lingua straniera possibilmente utilizzata come strumento veicolare nell’insegnamento di qualche disciplina) ciascuno affianca, dopo una iniziale sperimentazione aperta, il percorso o i percorsi che trova più confacenti a mettere in moto la sua curiosità per il mondo, la sua intelligenza, le sue doti operative, costruendosi i passaggi necessari attraverso la supervisione e il consiglio di docenti con cui è in sintonia.

Tutto questo perché, confermeranno gli addetti ai lavori attuali come i protagonisti del dibattito postbellico, l’individuazione e l’impegno in questo ambito di lavoro elettivo sono assai più decisivi, per il pieno e armonico sviluppo delle potenzialità intellettuali di un ragazzo nell’età della secondaria superiore, che non la mera giustapposizione di nuovi campi di informazione la cui veicolazione potrebbe avvenire, almeno a livello di prima introduzione, con l’incontro e/o la riarticolazione sul piano dei programmi di discipline già radicate nel progetto educativo.

Del resto, e anche qui è emblematico ed è stato oggetto di osservazioni intense il caso americano di connessione tra la high school e il college, in un paese sviluppato del XXI secolo inoltrato l’esperienza di un livello di studi post-secondari dovrebbe riguardare ormai più dei due terzi dei ragazzi tra i 18 e 24 anni, ed essere nelle sue varie articolazioni (dall’università ai corsi di specializzazione professionale scuola-azienda) passaggio fondamentale verso qualsiasi impiego qualificato. Dovrebbe quindi essere quello il momento in cui vengono rifinite in forma compiuta le competenze di contenuto più specificamente caratterizzanti per ognuno, magari nell’ambito di una strategia d’insieme che, in linea con l’esperienza di molti altri paesi, riduca la durata della scuola secondaria anticipando (e prolungando per i cicli più impegnativi) l’accesso a una higher education ormai parte integrante ed integrata del percorso scolastico.

Partendo da questi presupposti si può poi dare ragione a Boldrin quando dice che lo studio delle lingue classiche non è per tutti, nel senso che non rappresenta per tutti il terreno ideale in cui dare sviluppo alle proprie capacità cognitive. Io stesso, che mi sono diplomato al liceo classico 16 anni fa con piena soddisfazione per la scelta, riconosco che c’è un problema, se all’esame di maturità solo la metà di una classe è in grado di svolgere in modo pienamente soddisfacente una versione di greco senza aiuti, e che probabilmente gli altri avrebbero potuto trovare un ambiente più adeguato alle loro attitudini altrove. Ma la soluzione a questa situazione critica, più che attaccando i percorsi dotati di buone quote di successo, dovrebbe perseguirsi col tentativo di replicare quei fattori su cui quel successo si basa.

Se le ipotesi interpretative che ho avanzato finora dovessero essere verificate, una sensata azione di riforma dovrebbe essere volta a strutturare le politiche di assunzione e di conferma in ruolo dei docenti in modo da favorire la continuità nel rapporto con gli studenti e la collaborazione coi colleghi, e la ridefinizione dell’offerta formativa dovrebbe puntare alla riduzione delle discipline e degli indirizzi iperspecialistici volti alla formazione di figure professionali “di concetto” ormai inadeguate alla società contemporanea, all’aumento della compattezza degli ambiti vocational, e a programmi caratterizzati da un maggiore livello di approfondimento in tutti i comparti. Il lavoro per la costruzione e la manutenzione di un motore a scoppio può diventare un’esperienza non meno coinvolgente e non meno formativa delle capacità intellettuali, per qualità e quantità di conoscenze e attitudini messe in gioco, della lettura di Sallustio; occorre allora saper costruire attorno a quell’esperienza una proposta educativa organica che possa rappresentare una “palestra” per le intelligenze simile a quella che i giovani attratti dal lavoro nelle discipline umanistiche hanno trovato iscrivendosi (guarda caso) al ginnasio.

L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
Tutti gli articoli di Andrea Mariuzzo →