A 36 anni dalla morte di Peppino Impastato

Pubblicato il 9 Maggio 2014 alle 10:46 Autore: Cecilia Lazzareschi

Sono passati 36 anni da quando Giuseppe Impastato fu ritrovato morto, dopo essere stato investito da un’auto, a Cinisi, la sua città.

Quella stessa città che lo aveva allevato, reso uomo e infine ucciso, in cui Peppino (per tutti si chiamava così) aveva avuto il coraggio di parlare contro la Mafia. Siciliano consapevole e attento, fin da ragazzo seppe prendere le distanze da quel mondo di cui pure faceva parte. Prima negli anni del liceo, quando entrò attivamente nel mondo della politica, in particolare appoggiando l’ideologia del Partito Socialista: “Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale”.

Poi la fondazione di un movimento giovanile e di un giornale, sequestrato dopo pochi numeri. Il ‘68, che lo colse “quasi alla sprovvista” ma che lo trovò poi partecipe delle tante manifestazioni e lotte studentesche. E dopo un periodo di delusioni per la sconfitta elettorale e una più vasta crisi interiore dovuta alla paura di tutto e di tutti, sarebbe stato comprensibile un passo indietro. E invece nel giro di due anni, tra il ’75 e il ’77, Peppino Impastato fonda il circolo culturale “Musica e Cultura”, presto punto di riferimento e motivo si svago per i ragazzi di Cinisi, ma soprattutto inizia il progetto di “Radio Aut”. Indipendente e libera, diventa il canale attraverso cui il giovane (aveva allora 29 anni) e il suo gruppo di amici fanno sentire la loro voce contro gli esponenti della Mafia e della politica locale.

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Spesso sotto forma di satira, su Radio Aut non si risparmia nessuno. E si fanno nomi e cognomi. Era inevitabile dunque, e lui lo sapeva benissimo, che qualcuno avrebbe deciso di porre fine a tutto questo, e con il mezzo più spontaneo per i mafiosi: prima l’intimidazione e poi la violenza. Si cercò, ovviamente, di celare l’attentato dietro un ipotetico e assai poco credibile suicidio “spettacolare ed esemplare”, e il caso venne posto quasi in secondo piano per il fatto che lo stesso giorno, a Roma, le Brigate Rosse facevano ritrovare il cadavere di Aldo Moro. Ma i siciliani non potevano dimenticare, e tutti sapevano che Peppino era stato ammazzato.

Tra il 2001 e il 2002 i due boss ritenuti colpevoli dalla corte d’Assise sono stati condannati e successivamente sono entrambi deceduti, ma a rimanere più impresse sono, come sempre, le parole di Peppino Impastato.

E ci sono due versi di una sua poesia, che più di tutti fanno sentire la sua voce:

Nessuno ci vendicherà:

la nostra pena non ha testimoni.

Cecilia Lazzareschi

 

L'autore: Cecilia Lazzareschi