Il giorno di Draghi, quali sono le strade da percorrere per la BCE?

Pubblicato il 5 Giugno 2014 alle 10:34 Autore: Giovanni De Mizio

La domanda non è più “se?”, né “quando?”, ma “come la BCE interverrà?”. Un mese dopo la promessa di intervento, è giunta l’ora per Mario Draghi di passare dalle parole ai fatti. Nonostante i mercati continuino a mostrare una volatilità brillante per la sua assenza, narcotizzati come da anni a questa parte dalla liquidità (e dalle promesse di liquidità, nel caso della BCE) delle banche centrali, la situazione più generale dell’economia, in particolare nel Vecchio Continente, continua a destare non poche preoccupazioni.

Come già ricordato numerose volte su queste pagine, l’inflazione continua ad essere un problema sottovalutato da parte dei banchieri centrali europei, per via di previsioni eccessivamente ottimistiche, spiegazioni improbabili e vere e proprie tare intellettuali da parte dei Paesi nordici, Germania in primis.

La storia è andata come da copione: l’inflazione dell’Eurozona, dopo essere scesa allo 0,5 per cento tendenziale a marzo, è risalita per via dell’”effetto Pasqua” (grazie ai prezzi di trasporti e soggiorni per via delle festività), ma meno delle attese, allo 0,7 per cento. La stima preliminare rilasciata a maggio poi ha nuovamente deluso le aspettative: ritorno allo 0,5 per cento contro consensus allo 0,7, stracciando così le previsioni che la BCE riteneva più probabili pochi mesi fa.

draghi

L’inflazione continua ad essere depressa e lontana dal target del 2 per cento per due ragioni: una è il cambio fra euro e dollaro, l’altra è per la depressione della domanda interna. Nel secondo caso, buona parte del problema è dovuta alla crisi del mercato del lavoro: troppi disoccupati per troppo tempo hanno eroso la capacità di spesa complessiva, deprimendo i consumi, e di conseguenza i profitti, gli investimenti, le entrate fiscali, e non era impossibile aspettarsi che il dato sul prodotto interno lordo sarebbe stato a sua volta deludente, come in effetti è stato.

Con il resto delle istituzioni europee più bloccate del solito per via delle trattative sul prossimo esecutivo europeo (che entrerà in carica il prossimo autunno), l’unico organo vagamente funzionante resta la Banca Centrale Europea, e la leva della politica monetaria è l’unica che è possibile muovere per evitare guai peggiori all’area economica. In ogni caso si tratta di una leva che funziona solo nel breve periodo, mentre su più lunghi periodi è fondamentale utilizzare le altre leve (le famose riforme, purché fatte con senno, non come l’austerità insensata degli ultimi anni).

Un taglio dei tassi è considerato abbastanza certo dagli analisti e abbondantemente scontato dal mercato: le maggiori probabilità vedono un taglio di 10-15 punti base sia sul tasso benchmark che su quello dei depositi, che finirebbero in territorio negativo. In altre parole, le banche dovrebbero pagare una specie di “tassa” sui propri depositi alla banca centrale, e ciò può avere due conseguenze: la prima (quella che Draghi e soci auspicano) è che le banche ritirino quei depositi e li immettano nel circuito economico, sostenendo la ripresa; la seconda (che invece è temuta) è che le banche facciano pagare quella tassa ai propri clienti, approfondendo invece di alleggerire, il fardello del credit crunch.

Altro strumento che gli analisti ritengono probabile è il prolungamento delle operazioni di rifinanziamento principale a tasso fisso fino alla metà del 2016: in altre parole, la BCE continuerà a fornire liquidità alle banche a tasso fisso, senza porre limite alla quantità che è possibile richiedere.

In teoria, deludere le attese rispetto a queste due mosse significa far perdere molta credibilità all’istituto, che apparirebbe quindi congelato al suo interno come il resto dell’Unione, con conseguenze molto difficili da sopportare, soprattutto da Mario Draghi, che nel corso del meeting del mese scorso ha contribuito ad alzare l’asticella delle aspettative.

Altre due operazioni sono giudicate non improbabili dagli analisti: la prima è un programma volto a stimolare il credito bancario. La BCE fornirebbe denaro agli istituti finanziari a patto che questi lo girino all’economia reale e non acquistando i soliti titoli di Stato (e altri strumenti finanziari) come avvenuto in passato, ad esempio con il programma LTRO (altra operazione giudicata probabile).

Altra mossa che potrebbe essere annunciata è un qualche tentativo di rianimare il mercato degli ABS: deto altrimenti, la BCE interverrebbe per rendere più liquido il mercato del credito, rendendo più facilmente “scambiabili” mutui e prestiti, permettendo alle banche di liberarsi di qualche fardello che impedisce loro di rifornire l’economia reale di capitali freschi. Si tratterebbe, comunque, solo di un annuncio, poiché difficilmente la BCE comprerà a scatola chiusa: bisognerà aspettare la conclusione dell’Asset Quality Review, ovvero l’autunno prossimo.

Pur con gradi diversi, deludere le attese su questi ultimi fronti non avrebbe effetti decisi sulla credibilità dell’istituto, ma certamente mercati e osservatori continueranno a vedere la BCE come una istituzione ancora molto timida, forse troppo.

Altro annuncio che potrebbe essere fatto da Draghi, benché sia improbabile, è l’annuncio di un Quantitative Easing da mettere in pratica solo se saranno soddisfatte determinate condizioni, ad esempio se l’inflazione continuasse a declinare. Questo scenario è ritenuto improbabile per tre ragioni: la prima è politica, ovvero i Paesi nordici non sono ancora “pronti” per un passo del genere, e probabilmente vi si opporranno, costringendo le colombe alla ritirata per evitare di spaccare l’istituzione; la seconda è tecnica, ovvero ci sono molti dubbi che un programma del genere, se attuato concordemente ai trattati europei, possa avere effetti concreti nel risolvere alcuni problemi fondamentali dell’area, in particolare gli squilibri fra centro e periferia (in pratica si dovrebbero acquistare titoli in proporzione al capitale della banca centrale, ovvero soprattutto tedeschi, annacquando lo strumento e gli obiettivi che si vorrebbero realizzare), senza dimenticare che i tassi di interesse sono già bassissimi anche nella periferia; la terza ragione è tattica, a significare che la BCE vorrebbe tenere questo strumento di riserva, nel caso in cui le cose dovessero peggiorare. Come ben noto, la banca centrale ha quasi terminato le frecce della politica monetaria convenzionale (i tassi sono vicinissimi al limite dello zero per cento), ma la situazione non è ancora giapponese, ed è quindi meglio evitare di tirare tutte le frecce nel proprio arco.

Il problema è che a furia di aspettare le frecce si spuntano: lo stesso quantitative easing “classico” che aveva senso qualche anno fa, oggi, come abbiamo visto, sarebbe inutile. Per questa ragione il board BCE tenterà di mantenere qualche freccia shock di riserva, da usare come “arma di fine mondo”, alla stregua del mostruoso programma attuato dalla Nippon Ginkou, la Banca Centrale Giapponese. In tal caso non sarà impossibile vedere la BCE mettere le sue pesanti mani sul mercato dei titoli privati, financo le azioni, anche se più probabilmente (o meglio, meno improbabilmente) Francoforte potrebbe mettersi a comprare titoli di Stato USA (e non solo), per rafforzare il dollaro e rendere più care le materie prime (petrolio in primis), tagliando una gamba all’orco della deflazione, ovvero il cambio fra euro e dollaro. Ciò farebbe salire l’inflazione dei costi, così come avvenuto in Giappone, ma non è detto che si risolverà l’altro problema, quello dei consumi fermi.

In questo senso è necessario che sia la politica ad agire con le leggendarie riforme strutturali. La banca centrale non può fare miracoli in loro assenza: si chieda al premier giapponese Shinzo Abe, la cui politica economica (l’Abenomics) non è riuscita finora a scagliare la freccia più importante, facendo traballare tutto il (mostruoso) castello di speranze.

Sarà meglio per l’Europa imparare la lezione alla svelta: occorre un’Europa unita per davvero per affrontare le sfide di un mondo multipolare e dominato da super-Stati, in cui i singoli Paesi del Vecchio Continente sarebbero condannati all’irrilevanza e alla periferia del mondo più di quanto non lo siano già adesso che sono divisi. Le potenze emergenti sono Paesi così vasti in senso geografico, demografico e, in futuro, economico, che anche la Germania da sola difficilmente riuscirà ad affrontare, figuriamoci un Paese come l’Italia, in declino sociale e culturale, prima che economico e demografico, e guidato da elite politiche poco propense a invertire la tendenza.

La BCE, da sola, non può salvare l’Europa, ma è l’unica istituzione che può tenerla a galla per un tempo sufficientemente lungo. Finora sono bastate le parole come salvagente, ma da quel celebre “whatever it takes” molto è cambiato, ed è giunta l’ora di agire, e di agire bene.