Autodichia, l’incredibile mondo parallelo delle Camere

Pubblicato il 5 Gennaio 2017 alle 10:08 Autore: Gabriele Maestri
Autodichia, l'incredibile mondo parallelo delle Camere

Autodichia, l’incredibile mondo parallelo delle Camere

Immaginate un’istituzione in cui le cause dei dipendenti contro l’amministrazione non sono decise dai tribunali, ma da persone interne all’istituzione stessa; in cui contratti precari altrove non più leciti continuano a essere tollerati; in cui un gruppo ristretto di persone decide se una legge, dettata per tutti, dev’essere o meno applicata all’interno di quell’istituzione; in cui le spese non vengono controllate da un soggetto esterno. Non è una trama partorita da un romanziere: si parla del Parlamento italiano. Quello di Camera e Senato, visto con occhi attenti, sembra davvero un mondo parallelo, in cui molte cose sono del tutto logiche, ma altre sono cose incredibili e non (più) giustificabili.

Alla base di tutto c’è l’istituto dell’autodichia, la potestà che consente alle Camere – come ad altri organi costituzionali – di far giudicare le cause che le oppongono ai loro dipendenti a giudici individuati al proprio interno. Lo stesso principio, però, col tempo ha generato anche l’autocrinìa, per cui Camera e Senato decidono in autonomia quali regole applicare al loro interno, dai contratti dei collaboratori agli appalti, fino alla decisione sugli ingressi nei Palazzi. L’argomento è complesso e ricco di risvolti: a farci da guida è Irene Testa, giornalista e membro della presidenza del congresso del Partito radicale. Lei, dopo essersi già occupata del tema nel volume Parlamento Zona franca (scritto con Alessandro Gerardi), ha da poco pubblicato con Aracne il libro Sotto il tappeto. Autocrinia e altri misteri di palazzo: una raccolta di casi, riferimenti e riflessioni sulle storture dell’autodichia, accompagnate da alcuni pareri di illustri giuristi (Augusto Cerri, Fulvio Pastore, Renato Clarizia, Leonardo Brunetti, Vincenzo Baldini, Nicola Occhiocupo e Ciro Sbailò) su un istituto che rimanda più a onnipotenti corti regie che a una repubblica del Terzo Millennio.

irene testa autodichia

Testa, forse non c’è nulla di meglio dell’autodichia (intesa come giurisdizione domestica) e, in particolare, dell’autocrinìa, intesa come autonormazione, per definire un caso di eterogenesi dei fini. E’ d’accordo?

E’ esattamente così. Siamo in presenza di una norma “pseudocostituzionale” – quella dell’autodichia, quindi l’istituzione della giurisdizione interna delle Camere sui loro dipendenti – che nasce per tutelare il Parlamento dalle ingerenze della magistratura, dunque in senso positivo, ma poi si trasforma. Così, quella giurisdizione domestica è stata estesa anche a tutto l’aspetto amministrativo e contabile, per cui ad esempio nessuna norma stabilisce che gli appalti di Camera e Senato debbano essere affidati con gare chiuse o ristrette: eppure ciò accade e delle decisioni prese all’interno degli apparati amministrativi sappiamo ben poco; allo stesso modo, le norme valide all’interno delle Camere sono di fatto costruite su delibere, frutto di decisioni di una ventina di persone. Il risultato finale, per assurdo, è che tutte le deliberazioni prese, ad esempio sugli ingressi all’interno dei Palazzi, sulle attività che si svolgono all’interno delle Camere, comprese quelle bancarie e postali, godono di una sorta di “immunità” particolare, sconosciuto ad attività analoghe: un po’ per via di un concetto antico di “immunità di sede” di cui quelle sedi godono, un po’ perché di fatto le deliberazioni prese, ad esempio sugli ingressi nei Palazzi, non possono essere sindacate da un giudice “vero”. Al più, chi se ne vuole lamentare può andare a dirlo a dei giudici “domestici”: il risultato è uno status a sé, che rende queste attività sfuggenti ai controlli.

Lei parlava dell’autodichia come istituita da una norma “pseudocostituzionle”, nel senso che quell’istituto non è presente in Costituzione o, per lo meno, non è scritto a chiare lettere…

Diciamo che l’articolo 64 della Costituzione si limita a prevedere l’adozione di un regolamento interno per ciascuna Camera. Su questa disposizione, nel tempo, ci sono state varie giravolte di lettura e proprio da qui si è data vita a una sorta di giungla interpretativa: varie questioni, nate in seno al Parlamento a proposito di questa prerogativa delle Camere, sono arrivate davanti alla Corte di cassazione, alla Corte costituzionale e alla Corte dei conti, nel tentativo di capire a chi spettasse davvero decidere sulla legittimità di determinate situazioni.

autodichia senato

Pur non essendo scritta in Costituzione, l’autocrinìa è praticata in sostanza da sempre, prima in modo silenzioso, poi sempre più esplicito, in opposizione alle richieste di chiarezza, che vengano dai cittadini, dai media o dalla magistratura. Non c’era e non c’è alternativa?

Guardi, basterebbe semplicemente che le Camere – e le altre istituzioni che godono di quest’autonomia – diventassero a tutti gli effetti amministrazioni pubbliche, quando agiscono come tali (rapporti di lavoro, appalti, eccetera): le leggi approvate dal Parlamento ed efficaci all’esterno oggi vengono “piegate” o anche disattese all’interno, quando serve, mentre basterebbe che venissero applicate semplicemente anche all’interno. Le faccio un esempio: la legge anticorruzione al momento può anche non essere applicata ai dipendenti delle Camere, così come non è previsto che le norme proposte sul whistleblowing – cioè sulle denunce di irregolarità o illeciti da parte di lavoratori che di ciò siano venuti a conoscenza nell’ambito del loro rapporto di lavoro e che, per questo, vanno tutelati – siano estesi anche ai dipendenti delle amministrazioni delle Camere, cosa che secondo me è grave.

Autodichia e autocrinìa sono un pacchetto inscindibile o si potrebbero separare, magari mantenendone una parte?

Si potrebbe mantenere la parte istituzionale, che in qualche modo garantisce le Camere dall’ingerenza esterna della magistratura; per quanto riguarda, però, tutta la parte amministrativa e contabile, ma anche il rapporto di lavoro dei dipendenti, l’autodichia non ha più senso, l’Italia è uno dei pochi paesi che continua a tenere in piedi questo sistema. Di fatto le istituzioni che applicano l’autodichia somigliano a delle regge onnipotenti, penso al cerimoniale delle Camere che consente ai Presidenti di avere uno stuolo di commessi al suo seguito e qualcosa di simile vale per i Segretari generali: sono norme di cui non trovo il senso, ma che si possono pure conservare, se proprio l’amministrazione vuole mantenere il proprio status, ma non possono estendersi come un polpo a ogni dettaglio.

Verrebbe quasi la tentazione di dire che, se l’autodichia era nata per difendersi dalle ingerenze della magistratura (specie quando in qualche modo non era indipendente da altri poteri), l’autocrinia è stata creata dal Parlamento per difendersi da se stesso, cioè dalle norme che esso stesso produce…

Credo che sia una sintesi efficace del problema.

Laura Bottici, M5S autodichia

Nel suo libro Sotto il tappeto lei parla anche di altri risvolti dell’autonomia delle Camere, che a volte hanno risvolti incredibili: ad esempio quando ci si occupa delle elargizioni ai soggetti più diversi. Che, secondo il titolo che lei ha dato, a volte somigliano piuttosto a elemosine, e non con riguardo all’entità delle somme donate.

Vede, la prima volta che ho sentito parlare di beneficenze ed elargizioni è stata quando la senatrice questrice Laura Bottici ha denunciato pubblicamente il fatto che le Camere – con riguardo al Senato, il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei questori – potevano destinare a scopi benefici somme anche molto elevate, elargendole a soggetti pubblici e privati: le era stata fornita una distinta sommaria dei beneficiari, ma quando ha insistito, chiedendo chi fossero gli enti terzi o le persone fisiche destinatarie di quelle beneficenze, le è stato detto che quei dati non potevano essere forniti, in base alla normativa sulla privacy. La cosa assurda è che nemmeno un questore, che dovrebbe essere il primo ad avere conoscenza di determinate situazioni all’interno dei palazzi, di fatto può sapere a chi sono andati i soldi, la cui destinazione rimane nella sostanziale discrezionalità del Presidente e di poche altre persone: una cosa che fa pensare molto.

Poi c’è la nota “immunità di sede”, per cui tenere traccia di “chi viene e chi va” a Montecitorio e Palazzo Madama è impossibile persino per la magistratura, a meno di adottare soluzioni “laterali”…

Al centro di tutto, in realtà, c’è soprattutto la tutela per il parlamentare e per la sua attività istituzionale, estesa al punto che a loro nei palazzi delle Camere non vengono controllati borse o trolley ai raggi X, a differenza di quanto accade per ogni altra persona che entra. Per tornare al tema della domanda, aveva fatto scalpore il fatto che Primo Greganti, politico arrestato nel 2014 per tangenti legate all’Expo 2015, avesse agganciato col suo cellulare (due mesi prima dell’arresto) una cella vicinissima a Palazzo Madama e che lui stesso, intercettato poco dopo, avesse detto di aver finito una riunione in Senato; allo stesso modo, a marzo dell’anno scorso i giornali scrissero che Manlio Vitale, già gregario della banda della Magliana e noto come “er Gnappa“, aveva probabilmente incontrato alcune persone direttamente in Senato. Sul primo punto chiese un’indagine interna Michele Giarrusso, sulla seconda notizia si indignò in aula Paola Taverna, ma nei tabulati non si trovò alcun accesso delle due persone indicate.

Com’è potuto avvenire questo?

Il fatto è che all’interno dei palazzi del Senato si può entrare su invito del singolo eletto, ma la tutela del parlamentare può spingersi fino alla mancanza di controllo sull’ospite che entra con un “passi”. Se però quei nomi non ci siano perché non sono stati registrati, perché sono “spariti” o perché quelle persone non sono davvero mai entrate non è dato sapere: “è l’autodichia, bellezza”, non lo sapremo mai. Ed è bene ricordare che le forze dell’ordine, Guardia di Finanza compresa, non possono entrare nei palazzi parlamentari, a meno che non ci sia una richiesta espressa, sottoposta al Presidente del ramo del Parlamento interessato e che l’Ufficio di Presidenza deliberi sul punto: questo, ovviamente, non consente né l’effetto sorpresa né un’azione in tempi rapidi, soprattutto quando il Presidente dovesse ritenere necessaria una delibera dell’Ufficio di Presidenza sul punto.

Scarpellini autodichia

A proposito di sedi, una parte del volume è dedicata ai palazzi parlamentari diverse da Montecitorio e Palazzo Madama, in cui trovano spazio gli uffici degli eletti: un grande affare, più per i proprietari che per le Camere. 

Se ci si mette nei panni di uno come Sergio Scarpellini, proprietario dei palazzi in cui trovano posto gli uffici di cui parlava, e si ha come interlocutore la Camera dei Deputati, si capisce che c’è tutto l’interesse a trattare e fare affari con quell’istituzione. Visto il regime di autodichia nel suo complesso, sapendo che i conti di quei contratti non possono essere controllati da alcun organo esterno, ciò equivale ad avere una certa garanzia di immunità. Quei contratti, tra l’altro, erano molto onerosi e non prevedevano nemmeno espresse clausole di recesso, l’amministrazione della Camera cercò più volte di sfilarsi in qualche modo, come piuttosto avventurosamente era invece riuscito a fare il Senato. Ma Scarpellini esercitò quello che si potrebbe chiamare un “ricatto”: quell’istituzione aveva e ha bisogno di uffici in quella zona e non ha altri luoghi in cui poterli ricavare, nel “pacchetto” offerto dall’immobiliarista c’era anche il personale, molto meno costoso di quello della Camera (e a rischio licenziamento in caso di disdetta dei contratti), per cui Scarpellini poteva “giocare” come e quanto gli pareva. Anche per questo, Montecitorio non è mai riuscita a liberarsi di lui.

Ammetto poi che fa un certo effetto parlare di questo nei giorni in cui il personaggio chiave del capitolo, l’immobiliarista Sergio Scarpellini, si trova in condizione di arresto, sia pure per tutt’altra vicenda…

Non le nascondo che, apprendendo la notizia, avevo quasi avuto il sospetto che la procura di Roma avesse letto il mio libro! (ride) Tra l’altro, proprio i giornali hanno scritto che lo stesso Scarpellini era “tenuto in pugno” da “er Gnappa” e hanno ritirato fuori la vicenda delle presenze di quest’ultimo in Senato, legate forse a episodi estorsivi: la vicenda non c’entra affatto con la locazione dei palazzi della Camera, ma l’impressione è che il cerchio si chiuda…

Nel libro lei parla anche della condizione precaria, peraltro variegata, di chi lavora all’interno delle Camere senza essere stato assunto dalle stesse, ma essendo soprattutto alle dipendenze dei parlamentari. Anche questa, in qualche modo, rientra tra gli effetti dell’autocrinìa?

Assolutamente sì. Ci sono varie situazioni di criticità, diverse tra loro ma tutte problematiche. Penso innanzitutto al caso delle “contrattiste”, cui spesso erano e sono affidate mansioni da dattilografa: per ottenere il loro lavoro hanno superato un “concorsino”, ma il loro contratto con l’amministrazione viene di fatto rinnovato di anno in anno, dopo qualche giorno di “vacanza” e comunque con stipendi bassi; in una pubblica amministrazione questo non sarebbe possibile, mentre loro vengono rinnovate anche da dieci anni o più. La piramide “a gradoni” del precariato conosce poi vari scalini: nei palazzi, per esempio, entrano molte persone che sono assunte direttamente dai parlamentari, come collaboratori: queste non hanno nessuna tutela, non potendo rivolgersi né ai giudici interni delle Camere – visto che queste si limitano a versare all’eletto il denaro per quell’assunzione, senza altre responsabilità – né in gran parte ai giudici ordinari, visto che l’ombrello della tutela al parlamentare potrebbe portare il giudice a non esprimersi sulla domanda del lavoratore, o quanto meno a non poter accedere liberamente e tempestivamente alle prove del rapporto di lavoro.

Questo si aggiunge ad altri elementi di precariato legati alla vita del collaboratore parlamentare, come addetto alla “segreteria particolare”.

Già. Bisogna ricordare che, a questo proposito, ogni parlamentare riceve dall’amministrazione della Camera di appartenenza 4.180 euro mensili a titolo di “rimborso delle spese per l’esercizio del mandato”; di questa somma, la metà da alcuni anni va rendicontata con cadenza quadrimestrale (e la parte non utilizzata dev’essere restituita), mentre per l’altra metà non è prevista alcuna rendicontazione. Con quei soldi si possono fare varie cose: possono essere versati al partito a titolo di contributo, si possono usare per finanziare iniziative, eventi per “curare” il collegio o anche, appunto, per assumere uno o più collaboratori. Negli anni non si è mai riusciti a regolare diversamente lo status del collaboratore parlamentare: più volte si era chiesto di adottare il modello del Parlamento europeo, che paga direttamente il collaboratore, ma il nostro Parlamento continua a dare i soldi al singolo eletto, forse per evitare contenziosi o altri problemi. Si è fatto qualche passo avanti, chiedendo al parlamentare di depositare il contratto del collaboratore, ma non è ancora la norma. Esistono ancora contratti a progetto che coprono lavori da dipendente e non mancano altre storture: quando la legislatura si avvia verso la fine, per esempio, non sono rari i casi in cui i parlamentari scelgono di risparmiare una parte più o meno consistente dei 2mila euro “liberi” o di destinare al partito i soldi da rendicontare, il tutto in vista della campagna elettorale, e decidono per questo di interrompere il rapporto di lavoro – fiduciario – con i loro collaboratori personali.

sotto-il-tappeto autodichia

Questo sistema legato all’autodichia potrebbe essere messo in discussione da un caso sottoposto alla Cassazione e che, ora è davanti alla Corte costituzionale per un conflitto di attribuzione. Lei immaginava che l’organo sarebbe intervenuto sul “caso Lorenzoni” prima della pubblicazione del libro; la sentenza, invece, sembra ancora lontana. Come interpreta questo ritardo, che peraltro ha caratterizzato anche un primo passaggio alla Consulta della vicenda, nella forma del giudizio di legittimità costituzionale?

Tutto è partito dal caso di un dipendente del Senato, demansionato nel 2003 e da allora impegnato nel continuo tentativo di avere giustizia: gli stessi organi domestici hanno riconosciuto la lesione della sua professionalità con un giudicato interno, ma l’amministrazione del Senato non l’ha rispettato. Dopo avere investito per due volte della questione i giudici “domestici” senza avere ottenuto nulla di concreto, lui si è rivolto al vertice della giurisdizione ordinaria, citando i testi legislativi che mettono in dubbio la legittimità dell’autodichia. La decisione che la Consulta dovrà prendere sarà molto delicata, importante e “pesante”. Su questo ritardo possono avere inciso molte variabili: a pensar male, si potrebbe dire che per la Corte sarebbe stato troppo impegnativo esprimersi su questo tema prima del referendum costituzionale. Al di là di questo, da quella decisione potrebbe davvero scoperchiarsi un pentolone dalle dimensioni incalcolabili; la stessa Corte costituzionale, tra l’altro, pratica il regime dell’autodichia.

La sentenza sul “caso Lorenzoni”, in ogni caso, riguarderebbe solo l’autodichia come giurisdizione domestica o anche altri aspetti, come l’autocrinia?

Certamente dei risvolti sull’autocrinia dovrebbe averli, se non altro perché anche Giuliano Amato, già Presidente del Consiglio e ora giudice costituzionale, tempo fa sul suo blog aveva detto che l’autodichia non aveva più senso, ma lo diceva in realtà con riguardo al regime di autocrinìa che – tanto per i dipendenti, quanto a livello amministrativo – era ed è foriero di spese fuori controllo. Anche se la sentenza riguardasse solo l’autodichia in senso stretto, però. sarebbe una cosa importantissima. Oggi un dipendente delle Camere non può rivolgersi a un giudice che sia, e prima ancora appaia, terzo e imparziale, ma deve per forza rivolgersi a un collegio di parlamentari in veste di giudici; se poi tra i ricorrenti, dopo la decisione di Violante del 1998, possono esserci anche ex parlamentari, appaltatori e dipendenti di gruppo parlamentare e di quel gruppo fa parte uno dei parlamentari-giudici, che senso ha tutto questo?

Qualcuno peraltro aveva temuto che la riforma costituzionale, se fosse entrata in vigore, avrebbe blindato per sempre il regime dell’autodichia, grazie alla disposizione finale che recitava: “Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi”.

Il rischio c’era, perché quel testo avrebbe potuto dare reale copertura costituzionale all’autodichia. Quella frase poteva voler dire tutto e nulla: poteva blindare i rapporti con i fornitori, gli appalti, ma anche gli stessi vitalizi dei parlamentari, che a quel punto nessuno avrebbe più potuto toccare.

Nel suo racconto paradossalmente c’è anche il rovescio della medaglia, tra l’altro su uno dei punti maggiormente in grado di provocare reazioni tra i cittadini: quello delle pensioni/vitalizi agli ex parlamentari. Che non sarebbero affatto diritti quesiti, intoccabili, ma sarebbero nelle mani dei loro successori, magari in vena di tagli. E’ così?

Il fatto è che i vitalizi, o comunque si vogliano chiamare quei trattamenti previdenziali, non sono tecnicamente pensioni, ma sono elargizioni frutto di delibere dell’Ufficio o Consiglio di presidenza: questo ha permesso, tra l’altro, di ridurre o fa cessare gli assegni ai parlamentari condannati, visto che una pensione non è revocabile, ma un’elargizione sì. Il punto però è delicatissimo e ha generato una marea di ricorsi, che sono costati tra l’altro alle Camere molto denaro in consulenze richieste a giuristi, nel tentativo di capire se quelli degli ex parlamentari fossero o meno diritti acquisiti, dunque intoccabili. Pensi però che i vitalizi sono stati istituiti da un “Comitato segreto” del Consiglio di presidenza del Senato – così recita la delibera del 9 aprile 1954 che introdusse quelle provvidenze – di cui non si conoscevano nemmeno i componenti. Al di là di questo, però, ci vorrebbe una regolazione per legge, in modo tale che – ad esempio – in una legislatura successiva non possa esserci una nuova deliberazione del Consiglio di presidenza che restituisce i vitalizi ai condannati, con una procedura che, tra l’altro, ha una visibilità molto minore rispetto al procedimento di discussione e approvazione delle leggi. Di più, consideri che i parlamentari versano contributi alla cassa interna: che succede se l’ex deputato o senatore condannato chiede la restituzione dei contributi? Bisognerebbe fare, sempre per legge, una cassa unica per tutte le istituzioni costituzionali, diversamente prima o poi Camera e Senato andrebbero in default.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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