La questione del debito pubblico: Come se ne esce

Pubblicato il 23 Febbraio 2017 alle 15:58 Autore: Redazione
debito pubblico

La questione del debito pubblico. Come se ne esce

L’Italia è potuta entrare nell’euro grazie all’intelligente trattativa di Guido Carli, Ministro del Tesoro, sui due parametri fondamentali di finanza pubblica del Trattato di Maastricht, cioè, un deficit/PIL entro il 3% e un rapporto debito pubblico/PIL entro il 60%. Il primo rapporto sembrava già allora conseguibile col rigore di bilancio, ma il secondo era una mission impossible. Carli riuscì ad inserire che, in presenza di un rapporto debito/PIL superiore, i governi dovevano impegnarsi per ridurlo con un ritmo adeguato fino al 60%. Nei primi anni dell’euro, culminati nei risultati del secondo Governo Prodi (2006 – 2008), il calo verso il target proseguì e il parametro debito/PIL arrivò a quasi il 100%. Da allora, nonostante la ripresa dell’ultimo biennio, il debito pubblico ha superato il 133% del PIL. Contrariamente a quanto si dice, gli anni post crisi non sono stati affatto di austerity ma, al contrario, di elevati deficit spending, che continuano senza i risultati sperati. Il deficit 2016 è del 2,3% del PIL e, pur con la correzione richiesta di 3,4 miliardi, è previsto al 2,4% quest’anno.

Pure il deficit “strutturale”,quello del Fiscal Compact, “al netto degli effetti del ciclo economico”, dovrebbe commisurarsi all’1,6% nel 2016, al 2% nel 2017 e al 2,5% del 2018 per scendere (non si sa come) allo 0,5% nel 2019. Si ricorda che, in base agli impegni del Fiscal Compact, il disavanzo “strutturale” non dovrebbe mai superare lo 0,5% del PIL. Il Fiscal Compact: L’accordo prevede diverse clausole o vincoli, tra le quali:

1. l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio

2. l’obbligo di non superare la soglia di deficit strutturale dello 0,5% del PIL

3. la riduzione del rapporto debito/PIL, di 1/20 di quanto eccede il 60% (circa il 3% annuo)

4. l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre sotto il 3% del PIL

Detti principi sono sanciti dalla modifica del 2012 dell’art. 81 della Costituzione: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali….”. L’impegno è stato sempre disatteso,negoziando “flessibilità” anno per anno con Bruxelles. I deficit servono alla crescita?: L’espansione della spesa pubblica nonostante la situazione eccezionale di bassi tassi di interesse sul debito, ha inciso poco sulla crescita e sul lavoro, con un tasso di disoccupazione alto e stabile anche nelle previsioni del Governo (11,7% in media nel 2016; 11,6% nel 2017 e 11,4% nel 2018).

L’Italia non è stata virtuosa. Anche quest’anno le emissioni di titoli di Stato si gioveranno dello scudo della BCE, che continuerà a far scendere la spesa per interessi. Tuttavia, con l’aumento dell’inflazione europea, il mercato ha anticipato la riduzione del programma di acquisti di bond della BCE provocando un aumento dei tassi dei BTP, specie quelli più “lunghi”, e l’ampliamento degli spread tra paesi “core” (del nord Europa) e “periferici” (mediterranei). Uno studio, riportato dall’agenzia Askanews, ha calcolato in 1.700 miliardi la spesa cumulata per interessi sul debito pubblico nei 20 anni dal 1992. In pratica, più di un anno di PIL è servito a pagare interessi, il che dimostra l’importanza della virtuosità nella gestione dei conti pubblici: più un paese è credibile e meno interessi gravano sul debito.

La virtuosità paga due volte: la prima per i minori deficit da spesa per interessi, la seconda per la riduzione dello spread rispetto al paese benchmark (la Germania) conseguente alla maggiore solvibilità percepita dai mercati. Il debito è cresciuto per i troppi interessi. I costi più alti risalgono agli anni ‘90, con 10 anni di interessi sempre sopra i 100 miliardi. Scendono fino a 70 miliardi nel 2005, per risalire a 86 miliardi nel 2012 e, finalmente, grazie alla politica della BCE nel 2016 la spesa si è fermata a 66,5 miliardi. Malgrado l’aumento continuo del debito, il Tesoro ha risparmiato almeno 50 miliardi di interessi nel quadriennio 2013 – 2016. In un Rapporto inviato a Bruxelles a inizio febbraio il Mincomes indica una riduzione (dal 3,20% al 3,06%) del costo del debito rispetto al 2015, che potrebbe scendere anche nel 2017.

I governi hanno però usato male questi risparmi, incidendo poco sulla crescita, tra le più basse dell’Eurozona, nonostante l’aumento del 2016 (1,1% rispetto al 2015 e 0,9% in media). In questo clima le resistenze sulla correzione di 3,4 miliardi richiesta dalla UE risultano incongrue rispetto all’esiguità della stessa, considerato che ci attende una maxi manovra per il 2018 per rispettare gli impegni ed evitare gli aumenti automatici dell’IVA. Avendo l’Italia il più grande debito pubblico dell’Europa ed il terzo del mondo (dopo quelli degli Stati Uniti e del Giappone), si avvicina il momento di decisioni importanti per il risanamento. Le prime avvisaglie si hanno già coi rendimenti dei BTP decennali raddoppiati rispetto a sei mesi fa (al 2,25%) e con i tassi sui trentennali attorno al 3,5%. Più che lo spread rispetto al Bund tedesco, salito per alcuni giorni sopra i 200 punti, preoccupa il divario con i Bonos spagnoli, che segnala una minore credibilità pure nel confronto con l’altra principale economia mediterranea. Un confronto europeo: Nel 2015, secondo Eurostat, rispetto al 2014, il deficit pubblico medio europeo sul PIL è diminuito sia nei 28 Stati dell’UE, sia nell’Eurozona.

Anche il debito pubblico complessivo in rapporto al PIL è sceso dall’86,8% del 2014 all’85,2% del 2015, nella UE, e nell’Eurozona dal 92,0% al 90,7%. In totale 17 Stati membri hanno un rapporto debito/Pil superiore al 60%, con i rapporti più alti in Grecia (176,9%), Italia (132,7%) e Portogallo (129,0%). Nel 2015 questo rapporto è aumentato in 10 Stati ed è diminuito in 18. La crisi mette in difficoltà molti governi, fra cui quello italiano, nel tenere sotto controllo la spesa e, in contemporanea, promuovere la crescita. Il patto di stabilità e crescita tende ad assicurare un armonico sviluppo ed è volto anche a impedire che gli Stati membri adottino misure che possano procurare indebiti vantaggi alle loro economie a scapito delle altre. Dai dati del PIL dei singoli Paesi non si trova una univoca correlazione tra maggiore spesa pubblica in deficit e crescita.

La Germania cresce più degli altri con bilanci pubblici in surplus da anni. Continua l’effetto della politica della BCE: Il quantitative easing, avviato ad ottobre 2014 proseguirà per tutto il 2017 (a dicembre prossimo la BCE avrà acquistato circa 2.300 miliardi di attività, in gran parte titoli sovrani europei) ma i timori di instabilità politica e di elezioni anticipate, unitamente alla preoccupazione per la debolezza complessiva dell’economia italiana, spiegano l’impennata dei rendimenti dei nostri titoli. Pesa pure l’impegno, a carico delle finanze pubbliche, assunto dal Governo in carica col decreto “salvabanche”: 20 miliardi che dovrebbero (forse) rientrare una volta che le banche ricapitalizzate torneranno ad essere collocate sul mercato. Tutto ciò (insieme al flusso di fondi verso la Borsa Usa dopo l’elezione del Presidente, Donald Trump) implica una uscita massiccia dai titoli di Stato ed dai titoli bancari, poiché le banche italiane detengono titoli di Stato per circa 400 miliardi.

Come si riduce il debito pubblico? Le strade per avviare un percorso virtuoso sono diverse e non alternative. La prima è l’attuazione del Fiscal Compact senza sconti. Un pareggio di bilancio, con un tasso di inflazione sotto il 2% e una crescita reale del PIL analoga, produrrebbe un aumento nominale annuo del PIL, sufficiente a portare in due decenni le nostre finanze ai livelli tedeschi, con uno spread da paese “virtuoso”.

Il debito pubblico ammonta a circa 2.230 miliardi e il costo per interessi, pur in calo, supera da sempre l’avanzo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite. Il che, producendo anno per anno deficit, ha portato il debito all’attuale 133% del PIL. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) prevede una discesa di tale rapporto di pochi decimi nel 2017, per arrivare al 130,1% nel 2018 e al 126,6% nel 2019, con saldi primari crescenti fino al 3,2% nel 2019. Sempre nel DEF si stima una spesa per interessi in forte discesa fino al 2019, un obiettivo impossibile se saliranno ancora i tassi. Il mix tra bassa crescita, tassi in aumento e disoccupazione elevata potrebbe causare tensioni finanziarie e sociali, che favorirebbero i partiti euro-scettici. Uno scenario con tante incognite: la fine, prima o poi, del sostegno della BCE, l’instabilità politica, la bassa crescita e persino la possibilità che vengano messi alle banche limiti al possesso di titoli di Stato.

La questione banche è complicata dall’alta presenza crediti deteriorati. A giugno 2016 le sofferenze e gli altri crediti deteriorati (non performing loans o NPL) al netto delle rettifiche effettuate, ammontavano a 191 miliardi, il 10,4% del credito totale. Al lordo delle rettifiche, si arriva ai 360 miliardi di NPL, di solito indicati dalla stampa; questi rappresentano il valore nominale dei crediti e non la loro incidenza sui bilanci. Dei 191 miliardi di NPL, le sofferenze, cioè i crediti verso debitori insolventi, erano 88 miliardi, il 4,8% dei prestiti. I rimanenti 103 miliardi riguardano situazioni per le quali, se si consolida la ripresa, si potrà avere il ritorno alla regolarità dei pagamenti. Senza il sostegno del credito, le imprese non potranno investire e alimentare la crescita, ma senza crescita, le banche non aumenteranno i loro prestiti.

Aumentare le tasse o diminuire le spese? Uno studio della BCE di Maria Grazia Attinasi e Luca Metelli, spiega che un risanamento dei conti basato sui tagli di spesa è più efficace di quello realizzato con aumenti delle tasse. Secondo gli autori, le manovre sulla spesa generano una riduzione durevole del rapporto debito/Pil, mentre con maggiori imposte il rapporto debito/PIL tende a tornare ai livelli precedenti lo shock fiscale, rappresentato ad esempio da una grossa patrimoniale.

La ricerca suggerisce la spending review quale migliore strategia di risanamento. Anche la tempestività è importante. “Ritardare il consolidamento fiscale fino a quando la pressione dei mercati minaccia la capacità di un Paese di emettere debito – conclude lo studio – potrebbe avere un costo in termini di minore riduzione del rapporto debito/PIL a parità di sforzo di risanamento, anche se si è operato dal lato della spesa”. Questa è l’opzione migliore, anche se è noto che gli aumenti di imposte sono la forma preferita di austerità, dati i costi politici che comporta una durevole riduzione della spesa pubblica. Si comprendono quindi le preoccupazioni dei nostri partner sulla capacità dell’Italia di tenere i conti sotto controllo e le insistenze su questo piccolo aggiustamento dello 0,2% del deficit 2017. Conviene rischiare una procedura di infrazione per una cifra così piccola? I mercati farebbero salire lo spread, appesantendo la spesa per interessi di importi ben maggiori.

Gli economisti si soffermano piuttosto sulla composizione della spesa pubblica. Tagliando le spese improduttive, si possono pure ridurre le tasse. Il governo Monti introdusse tasse per oltre il 5% del PIL, che hanno ampliato la recessione nel 2012 e nel 2013. Il governo Renzi ha bloccato l’aumento delle imposte (per la verità diminuendo quelle centrali e causando l’aumento di quelle locali) ma sui tagli di spesa non ha fatto molto. Nessun governo è finora riuscito a percorrere la strada della spending review per ridurre la pressione fiscale e far ripartire la ripresa. I tedeschi sono preoccupati del nostro debito: sanno bene che è impossibile un salvataggio europeo dell’Italia in caso di un forte shock su un debito così elevato. È allo studio, tuttavia, un quadro di regole da seguire nella ristrutturazione dei debiti pubblici europei.

Ciò permetterebbe ai mercati di reagire razionalmente in situazioni di emergenza, costringendo i Governi interessati a maggiore disciplina fiscale, sapendo che non arriveranno aiuti gratis dagli altri. Di ciò si parla in uno studio del luglio scorso (questa la seconda strada percorribile): “Un meccanismo per regolare la ristrutturazione dei debiti sovrani nell’area Euro”. Si propone cioè “l’allungamento delle scadenze” del debito del Paese in difficoltà dopo una verifica del “Fondo salva stati” e, in una seconda fase, la ristrutturazione del debito. Lo studio prevede in particolare che il debito andrà ripagato in euro e non in valuta nazionale, rendendo così più costosa l’uscita dalla moneta unica. A scoraggiare tentazioni del genere si è di recente aggiunto il Presidente della BCE, Mario Draghi, dichiarando che, in caso di uscita dall’euro va regolato anche il saldo del sistema dei pagamenti Target2 (che per l’Italia ammonta a circa 360 miliardi, corrispondenti in sostanza agli acquisti BCE di titoli di Stato).

Lo studio affronta anche il tema di chi pagherà il conto di un eventuale hair cut, un taglio secco del debito di importo consistente, la terza strada percorribile. Nel caso dell’Italia – essendo il debito quasi per intero detenuto nell’area euro (banche italiane, risparmiatori, BCE e banche europee) – questo tipo di ristrutturazione comporterebbe un onere a carico di questi quattro insiemi di investitori. Col rischio di perdite gravi dei risparmiatori e delle banche, che a loro volta dovrebbero aumentare il capitale. Secondo uno studio della “Fondazione Res Publica” (che riunisce esperti come Profumo, Micciché, Magnoni e Tremonti) lo Stato potrebbe tagliare il debito creando dei veicoli societari in cui convogliare propri attivi (immobili, partecipazioni, crediti ed altre attività) stimati in 300 miliardi.

Anziché emettere Btp, il Tesoro collocherebbe obbligazioni convertibili in azioni delle società veicolo con dentro i beni dello Stato. Ai sottoscrittori andrebbe una cedola più alta dei BTP fino alla conversione in azioni di società che dovranno valorizzare gli asset dello Stato. In tal modo lo Stato scambierà BTP con azioni e potrà ridurre l’ammontare del debito. Si dovrebbe convincere il mercato della congruità degli asset conferiti nelle società veicolo e trovare investitori disposti a comprare titoli convertibili in azioni. Servirebbero manager in grado di valorizzare tali asset. Comunque, tutti sono ormai consapevoli che non si può ridurre il debito solo con l’avanzo primario, con una spesa per interessi così alta. Può farlo solo un governo con la prospettiva di cinque anni, con una maggioranza stabile e coesa perché manovre di questa importanza vanno impostate ad inizio di legislatura e comportano un carico di polemiche e di proteste sociali che solo un governo solido può affrontare.

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