Giovanni Sartori: il ricordo del Prof. Almagisti intervistato da TP

Pubblicato il 13 Aprile 2017 alle 00:22 Autore: Federico Gonzato
giovanni sartori, intervista

Giovanni Sartori: il ricordo del Prof. Almagisti intervistato da TP

Intervista a cura di Federico Gonzato.

Lo scorso 1 aprile, ci ha lasciato, all’età di 93 anni, uno dei più grandi autori della Scienza politica italiana; il professor Giovanni Sartori. Docente di fama internazionale, il politologo fiorentino ha dedicato la sua vita allo studio e alla critica, anche aspra, della politica. In particolare, Sartori si è concentrato sull’analisi di una delle più complesse forme di governo: la democrazia.

Ѐ proprio di democrazia, ma anche di molto altro, che parliamo oggi con Marco Almagisti, docente di Scienza politica presso l’Università degli studi di Padova; oltre che membro della SISP (Società Italiana di Scienza Politica) e autore di numerosi saggi riguardo la democrazia e la partecipazione politica . Su questi temi, nel 2016, ha pubblicato il saggio Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea e ha contribuito alla redazione del saggio Lezioni sulla democrazia.

Giovanni Sartori: L’intervista di TP al Prof. Almagisti

Professor Almagisti, nel 2007 il maestro Giovanni Sartori, in collaborazione con la Rai, realizzò “La democrazia in trenta lezioni”, un ciclo di trenta puntate dedicate alla genesi di questa forma di governo. Oggi, lei ed altri sette colleghi, con la supervisione di Enrico Mannari, avete pubblicato per Mondadori “Lezioni sulla democrazia”.

Senz’altro per tutti i politologi italiani esiste sempre una forte connessione rispetto  all’insegnamento sartoriano. Infatti, penso che senza il ruolo fondamentale di Sartori, la Scienza politica in Italia o non esisterebbe, o comunque sarebbe molto più debole. Dopodiché, il progetto di “Lezioni sulla democrazia” è peculiare. Nasce infatti dalla vulcanica capacità organizzativa di Enrico Mannari, con un’idea ed un intento più interdisciplinari.

La volontà è quella di approfondire alcuni problemi della democrazia nella contemporaneità, chiamando a discutere colleghi che non necessariamente sono politologi. Leonardo Morlino ed io siamo politologi, ma vi sono anche contributi di sociologi della politica come Giovanni Moro, Donatella Della Porta e Michele Sorice, esperti di sociologia della comunicazione come Emiliana De Blasio, filosofi come Giulia Oskian e teorici della politica molto importanti come Nadia Urbinati. Ovviamente, l’ottica interdisciplinare risulta decisiva oggi; Sartori aveva di fronte un altro contesto ed altre esigenze. Per Sartori era fondamentale ridefinire la Scienza politica e riqualificarla come disciplina empirica. Dopo vent’anni di dittatura fascista e in un clima culturale dove risultavano prevalenti altri filoni culturali, indifferenti oppure ostili alle scienze empiriche.

In tal senso, Sartori aveva bisogno soprattutto di marcare la differenza rispetto a quello che esisteva già. Oggi, a diversi decenni di distanza, noi ci troviamo ad affrontare grandi cambiamenti della società e mi pare che l’importanza maggiore non sia tanto quella di marcare i confini; quanto di intrecciare le nostre strade con discipline con cui è possibile e necessario collaborare. Penso dunque a discipline come la sociologia per esempio. Senza dimenticare la potenza della storia. 

Qual è lo stato della ricerca politologica in Italia attualmente?

“Ѐ una condizione molto diversa rispetto a quella che riguardava l’esperienza iniziale di Sartori. Oggi la Scienza politica è presente e radicata nei corsi di laurea dell’Università. Casomai, essa corre oggi il rischio di alcuni eccessi di specializzazione. Un problema, quest’ultimo, messo in luce da un libro curato da colleghi stimabili come Gianfranco Pasquino, Marco Valbruzzi e Marta Regalia (Quarant’anni di scienza politica in Italia; il Mulino; 2013), che stila un bilancio della Scienza politica in Italia dopo quarant’anni, considerando quale termine iniziale il 1971; l’anno in cui nasce la Rivista italiana di Scienza politica, sempre grazie a Giovanni Sartori.

giovanni sartori, intervista tp

Una rivista fondamentale, di cui ho avuto il piacere di fare il redattore per qualche anno. Il rischio della Scienza politica è anche quello, sottolineato da Damiano Palano, di un allontanamento dalle questioni fondamentali della nostra epoca. Frutto di un’atrofia delle componenti teoriche e di un eccessivo schiacciamento sul presente della ricerca. A mio avviso, questi rischi possono essere superati attraverso l’apertura interdisciplinare; ricostruendo connessioni con le altre scienze sociali, la storia e la filosofia.

Rousseau sosteneva che la democrazia, nella sua forma diretta, “non è mai esistita e mai esiterà”. Ecco, l’idea di far riferimento a Rousseau da parte del M5S è azzardata?

Che il M5s faccia riferimento a Rousseau è un’evocazione molto suggestiva. Tuttavia, Rousseau apparteneva ad un mondo molto diverso dal nostro, in cui la democrazia di massa, quella che abbiamo conosciuto nel ‘900, doveva ancora affermarsi.

Si era agli albori della democrazia rappresentativa; ossia di quel connubio fra il principio di governo del popolo e il meccanismo della rappresentanza da cui scaturisce la democrazia moderna. Oggi noi stiamo affrontando la questione della crisi della rappresentanza. E l’aspetto della partecipazione, online e offline, dei cittadini sarà saliente anche nei prossimi anni.

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Passando per un istante al 4 dicembre, al dibattuto referendum costituzionale, alcuni sostenevano un pericolo di “deriva autoritaria” in caso di vittoria del Sì. Lei, da sostenitore del No, concordava con questa affermazione?

No, secondo me no. Va detto che le costituzioni rappresentano l’insieme delle norme fondamentali destinate a durare nel tempo; come tali andrebbero modificate con molta prudenza.

Io non ero d’accordo con la riforma costituzionale non perché pensassi che fosse possibile una deriva autoritaria. Bensì perché non ero convinto del disegno di riforma costituzionale; perché pensavo, e penso ancora, che sarebbe meglio una riforma condivisa da discutere apertamente cercando la più ampia convergenza delle forze politiche. Potrebbe essere ancora uno scenario possibile, se ci fosse la volontà politica.

Lei sostiene la necessità di una “cultura politica diffusa” e che “la sfida da vincere per consolidare la democrazia è far sì che una Costituzione democratica diventi condivisa”. Quanto la scuola italiana, l’università e l’istruzione pubblica in generale, potrebbero contribuire a vincere questa sfida?

L’idea è che le norme fondamentali e le procedure della democrazia diventino dei beni pubblici; che ci si aspetta che anche gli altri rispettino. Davanti agli sconvolgimenti del Novecento un grande pensatore quale Nicola Matteucci sostenne che “le Costituzioni giuridiche si rivelano solo fragili costruzioni di pensiero”.

Ecco, per renderle più forti devono diventare cultura politica diffusa; radicarsi nel cuore delle donne e degli uomini. Per questo, l’educazione è molto importante e in qualche modo lo è già.

Vedo una forma d’interesse delle generazioni più giovani in tutti i livelli scolastici; per questo credo che la grande sfida sia quella di dare risposta ed ascolto alle domande delle generazioni più giovani. Non credo che parlare di queste cose sia meno importante di altre materie.

Il politologo Mauro Calise, in un’intervista per l’Unità, ha sostenuto che “il PD è l’ultimo dei partiti di massa”. Ѐ d’accordo con questa affermazione? 

I partiti di massa avevano caratteristiche peculiari, come ho cercato di descrivere in Una democrazia possibile, alcune delle quali nel tempo si sono perdute.

Certamente il PD è un partito che oggi riesce ad avere ancora un forte potenziale di mobilitazione. Oltre che iscritti in quantità notevole rispetto al resto del contesto partitico. Tuttavia, penso che siamo in una realtà molto diversa rispetto a quella conosciuta con la “Repubblica dei partiti”.

Proprio Mauro Calise ci ha insegnato, negli anni scorsi, a non sottovalutare i processi che attraversano tutto l’Occidente. Sono questi i processi di mediatizzazione della società e di personalizzazione della politica, i quali mettono in discussione il modello del partito di massa perché cambiano alcune realtà della comunicazione, sostanziale in politica. Questi fenomeni determinano una serie di questioni irrisolte: la selezione della classe dirigente; la partecipazione dei cittadini; l’incapsulamento dei conflitti. Non mi pare che i modelli di partito successivi ai partiti di massa abbiano dato soluzioni soddisfacenti. Anzi, sovente vengo considerato un nostalgico dei partiti di massa per le funzioni che svolgevano.

Tuttavia, di fatto, il cantiere è ancora aperto perché abbiamo difficoltà a dare forme all’impegno politico in un contesto che non è più quello dei decenni passati. Un contesto, quest’ultimo, nel quale si ammetteva che i partiti di massa non soltanto incapsulassero i conflitti, ma anche svolgessero una funzione pedagogica. Funzione che oggi mi pare molto difficile da proporre; in una società in cui va ricostruita anche una fiducia minima fra rappresentanti e rappresentati.

Lei attesta come in tutta Europa ci sia un crollo della membership di partito che va di pari passo con una crescente membership in organizzazioni della società civile. Un esempio può essere Podemos. In Italia, quanto spazio può esserci per esperienze di questo genere?

Partirei essenzialmente da questo: da un lato c’è il dato che vede una contrazione della membership di partito, e questo a volte ci induce a parlare di crisi della partecipazione o di apatia politica, ma, così facendo non vediamo, dall’altro lato, che esistono forme di attivismo civico e, in molti casi, aumentano.

I cittadini attivi svolgono un ruolo di grande importanza perché, per usare le parole di Giovanni Moro, “politicizzano le politiche pubbliche” e fanno emergere anche i punti di vista di soggetti spesso non considerati.

Le persone che si attivano in associazioni che tutelano anziani, disabili, persone in difficoltà, o che animano il consumo critico o un gruppo di acquisto solidale possono seguire percorsi differenti. Un rilevante filone di partecipazione sociale nel nostro paese è il frutto delle mobilitazioni degli anni Settanta. Altre esperienze sono nate dai movimenti di critica della globalizzazione neo-liberale che hanno caratterizzato il passaggio fra i due secoli. Altri sono semplicemente cittadini che si attivano in merito a questioni concrete che li coinvolgono da vicino. Sono esperienze articolate; senza le quali le nostre società sarebbero sicuramente più povere ed insicure.

Detto questo, io credo che ci sia un fattore importante da tener conto, che è la crisi economica che stiamo vivendo dal 2007-2008. Uno degli effetti della crisi economica è stata una forte critica dell’establishment e delle politiche di austerità scelte per cercare di governarla. Questa critica spesso viene etichettata con il termine “populismo”; io temo che tale concetto rischi di subire quello che Sartori chiamerebbe “stiracchiamento concettuale”; ossia rischiamo di assimilare forme di protesta e di novità fra loro differenti.

Solo per restare in Europa, Marine Le Pen crea consenso nella protesta contro l’establishment tematizzando questioni quali l’antieuropeismo e il rifiuto dell’immigrazione. Tuttavia, fenomeni come quello di Podemos fanno vedere che esistono altre risposte. Risposte che a sinistra si presentano in una forma più radicale rispetto al passato, ma che non sono assolutamente estremiste. Con Podemos e con Syriza compare una nuova sinistra, che non contesta in nessun modo i meccanismi della rappresentanza politica; che riprende alcune categorie vicine al pensiero socialista e socialdemocratico riguardo al welfare e ai diritti sociali. Questa nuova sinistra critica i partiti socialisti proprio per l’appiattimento dei partiti dell’Internazionale socialista; incapaci di smarcarsi rispetto ai partiti conservatori e liberali riguardo all’austerity.

Riguardo all’Italia, invece, abbiamo avuto esperienze differenti, laddove le mobilitazioni sono state intercettate prima di tutto dal M5S. Questo credo che abbia ridotto fortemente lo spazio di manovra per possibili altri soggetti nella sinistra.

Guardando al dibattito sulla legge elettorale, l’ex premier Matteo Renzi si è detto disponibile ad eliminare i capilista bloccati. Quale sarebbe, a suo avviso, il sistema più adatto per questa fase?

Spero che si arrivi ad un accordo fra le forze politiche. Non credo alla legge elettorale perfetta; essa è frutto di compromessi. Anche di adattamento alla situazione del momento. Prima parlavamo di Sartori, che proponeva il doppio turno di collegio. Ѐ stata fatta anche una petizione da un centinaio fra politologi e giuristi che aveva Sartori come primo firmatario nel 2013. Ѐ stata una proposta che non mi pare abbia suscitato molto dibattito. Dopodiché io non sono tra coloro che demonizzano il proporzionale. L’abbiamo avuto per decenni; funzionava piuttosto bene e probabilmente avremmo potuto avere anche forme di alternanza se non ci fosse stata il condizionamento del “fattore K”. Questo era legato però più alla natura anti-sistema riconosciuta dagli altri partiti al Partito comunista, che lo rendeva inidoneo ad assumere ruoli di governo che non alla legge elettorale.

Dopo di che, penso che le leggi elettorali non debbano essere fatte “contro qualcuno”. Quando sento affermare palesemente che serve una legge elettorale contro qualcuno, quel qualcuno sono i cinque stelle, comincio a pensare che il M5s possa risparmiarsi la campagna elettorale.

L'autore: Federico Gonzato

Veronese, classe 1995. Nel luglio 2017 si laurea con lode in Scienze politiche all'Università di Padova. Studia Mass media e politica presso l'Università di Bologna - Campus di Forlì. Appassionato di giornalismo politico e società, segue l'attualità e il dibattito politico interno. Amante della lettura e della pallavolo, milanista nostalgico. Per Termometro Politico mi sono occupato di politica interna. Ora scrivo di Esteri, in particolare di politica d'Oltre Manica.
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