Paolo Borsellino morto 25 anni fa, figli: “Non era rassegnato”

Pubblicato il 19 Luglio 2017 alle 12:03 Autore: Daniele Sforza
Paolo Borsellino morto 25 anni fa, le parole dei figli

Paolo Borsellino morto 25 anni fa, figli: “Non era rassegnato”.

Venticinque anni sono pochi o tanti. Dipende dai punti di vista. Fatto sta che 25 anni senza Paolo Borsellino, forse, ci sembrano troppi. Il figlio Manfredi, su AgenSIR, lo ricorda con dolci parole. Mai rassegnato, piuttosto sempre vivo. Anzi, amante completo della viva. Nessuno, dopotutto, sceglie la propria fine. E per Paolo Borsellino la fine era una vittoria.

Il ricordo di Paolo Borsellino nelle parole del figlio Manfredi

La sua generosità era senza limiti”, ricorda Manfredi Borsellino. La lotta alla mafia il suo credo eterno. Manfredi aveva solo quindici anni, quando il padre gli chiese di regalare il suo motorino al figlio di una vedova. Vedova perché? Il marito era morto in una strage di mafia. Il motorino sarebbe servito più al figlio, che a Palermo faceva il panettiere.

Non solo lotta alla mafia, ovviamente. Ma anche amore e impegno per la famiglia. Nonostante il lavoro che faceva, ricorda Manfredi, “trovava sempre il tempo di stare in famiglia. Seguire personalmente le nostre attività, fossero esse di studio o ludiche”. L’amore di Paolo Borsellino per la famiglia era grande. Manfredi ricorda come avesse “adottato” anche le sette figlie della sorella rimasta vedova e in difficoltà economiche. Nessun vizio, però. Piuttosto una forte responsabilizzazione nei confronti della vita quotidiana. Tant’è, ricorda Manfredi, “che al momento della sua morte può dirsi che eravamo a nostro modo preparati”.

Paolo Borsellino non era rassegnato

Eppure preparati non vuol dire quello che si può pensare spontaneamente. La voce che Paolo Borsellino fosse andato incontro alla morte “rassegnato” è falsa. “Mio padre amava in modo viscerale la vita”, ci tiene a precisare il figlio. A cui è sempre apparso “inverosimile che egli andasse incontro alla morte, ritenendola in quel momento un evento ineluttabile”.

La verità? “Abbiamo assistito alla morte di un uomo lasciato solo in un momento storico in cui occorreva massima coesione e distribuzione delle responsabilità. Anche all’interno degli uffici giudiziari”. Manfredi è forte, anche degli insegnamenti di suo padre. La sua morte, scrive su AgenSIR, “è servita a svegliare dal torpore tante coscienze” e questo “ci ripaga dalla sua assenza”. Così come un “grandissimo patrimonio morale”. Vale a dire, l’umiltà. E la voglia di vivere.

“La nostra fede ci rende sicuri del fatto che un giorno lo rivedremo”, conclude. “Bello e sorridente, come lo ricordiamo sempre”. E la famiglia – il figlio, le sorelle, la madre – è ancora unita nel suo ricordo. E sta ancora perseguendo la sua strada. Una strada intricata ancora di misteri.

Paolo Borsellino e le questioni irrisolte

Siamo agli inizi dell’ultimo processo per la strage di via D’Amelio. L’ultimo latitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, sarà giudicato per la morte di Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. Così come di Giovanni Falcone e della sua scorta, nella strage di Capaci. Lo scopo è quello di cercare le verità. Sbrogliare le questioni ancora non risolte. Risuonano ancora le frasi del pentito Armando Palmieri, ex autista del capomafia Vincenzo Milazzo. Ucciso pochi giorni prima di Borsellino per volere di Messina Denaro. Per questioni interne a Cosa Nostra, la versione più limpida. Ma non solo. Secondo Palmieri, Milazzo ebbe qualche incontro con personaggi dichiaratisi dei servizi segreti. Le riunioni, che duravano un paio d’ore, erano incentrate su un possibile progetto finalizzato a destabilizzare lo Stato. La mafia di Cosa Nostra da un lato e la mafia segreta dall’altro.

Fiammetta Borsellino: “Nessuno si fa vivo con noi”

In questi caldi giorni a Palermo, sarà presente anche Fiammetta Borsellino. La più piccola della famiglia. Rabbiosa contro chi lasciò solo suo padre. Sia in vita sia in morte. “Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità”, ha affermato in un’intervista al Corriere. “Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili”.

Una solitudine che continua a farsi sentire ancora oggi. “Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato, né un poliziotto. Si sono tutti dileguati”. Nemmeno i magistrati hanno voluto dare alla famiglia spiegazioni e conforto morale. “Dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è ancora più evidente”.

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L'autore: Daniele Sforza

Romano, classe 1985. Dal 2006 scrivo per riviste, per poi orientarmi sulla redazione di testi pubblicitari per siti aziendali. Quindi lavoro come redattore SEO per alcune testate online, specializzandomi in temi quali lavoro, previdenza e attualità.
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