Patto di non concorrenza tra aziende e dipendenti: tassazione ed esempio

Pubblicato il 6 Febbraio 2019 alle 13:40 Autore: Claudio Garau

Che cos’è il patto di non concorrenza tra azienda e lavoratore e quali regole e vincoli segue. I profili fiscali del patto di non concorrenza.

Patto di non concorrenza tra aziende e dipendenti tassazione ed esempio
Patto di non concorrenza tra aziende e dipendenti: tassazione ed esempio

Tutte le aziende sanno che esercitano la loro attività in concorrenza con le altre dello stesso settore. La legge, proprio per tutelare la correttezza nella libera concorrenza, ha opportunamente previsto il cosiddetto patto di non concorrenza. Vediamo meglio di che si tratta.

Patto di non concorrenza: che cos’è l’obbligo di fedeltà in costanza di rapporto di lavoro

Un dipendente assunto in azienda dovrà rispettare una vasto insieme di obblighi di varia natura. Tra questi doveri, uno in particolare merita attenzione: si tratta dell’obbligo di fedeltà. Esso vale soltanto durante il periodo di lavoro per una certa azienda e termina con la cessazione del rapporto di lavoro. Si sostanzia nell’imporre al dipendente di comportarsi secondo correttezza e buona fede, e – soprattutto – comporta che questi tenga riservate a terzi tutte le informazioni inerenti all’azienda, che possano potenzialmente – se rivelate – favorire aziende terze. Ciò in pratica è parte del più generale obbligo di non concorrenza, mirato a far sì che il dipendente non collabori, esegua prestazioni, sia assunto presso aziende concorrenti.

Però per fare un rapido esempio, può verificarsi che un dipendente che lavora per una azienda che produce automobili, ad un certo punto concluda la sua esperienza lavorativa in quel contesto. Ci si potrebbe trovare nella situazione in cui, quel dipendente – magari un ingegnere che conosce tutti i segreti della produzione – passi ad altra azienda del settore, con il rischio che – ad essa – possa trasferire le informazioni e i segreti che conosce. La legge però interviene a tutela della riservatezza anche dopo la cessazione del rapporto, con il patto di non concorrenza. Vediamo di che si tratta.

Patto di non concorrenza: com’è definito dalla legge italiana e quali sono i limiti

Le parti del contratto di lavoro possono, al fine di tutelare la concorrenza anche dopo la fine del rapporto, stipulare un patto di non concorrenza. Esso può definirsi come un accordo che prende le forme di una clausola inserita nel contratto stesso; oppure un accordo separato, che ha la finalità di vietare che il dipendente svolga attività in concorrenza con il datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Ciò però solo per un determinato periodo di tempo e a certe condizioni (fissate dall’art. 2125 del Codice Civile).

Tra questi, meritano menzione: la forma scritta del patto a pena di nullità; l’obbligo di un corrispettivo per il dipendente firmatario; specifici vincoli di oggetto, tempo e luogo. In ogni caso, tale patto non può avere una durata superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Nel caso sia pattuita una durata superiore, essa si riduce automaticamente alla misura suddetta.

Patto di non concorrenza: la questione del corrispettivo e della tassazione

Il patto di non concorrenza, per sua natura, vincola rigidamente il lavoratore che lo rispetta. Perciò è remunerato secondo criteri variabili, che fanno riferimento a vari fattori. Tra essi: l’estensione dell’oggetto del patto e dell’area geografica, oppure la durata nel tempo. Non si può a priori fissare un preciso corrispettivo; il legislatore afferma però che esso deve essere congruo, cioè sempre proporzionato la sacrificio imposto al lavoratore. Il quale non è libero, alla fine del rapporto, di andare a lavorare per chi vuole.

Per quanto riguarda i profili fiscali del patto di concorrenza, è un argomento assai discusso. Secondo la giurisprudenza, se il patto di non concorrenza agisce quando il rapporto è già cessato, non essendo per logica ricollegabile al concetto di retribuzione, il corrispettivo è da ritenersi esente da contributi. Pertanto il compenso è soggetto a tassazione separata, e si applica la stessa aliquota di tassazione usata per il TFR. Se, invece, il corrispettivo è versato in costanza di rapporto, lo stesso avrà natura retributiva. Come affermato dalla Corte di Cassazione, sarà quindi oggetto di prelievo IRPEF ordinario; e concorrerà a formare la base per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Se ti interessa saperne di più sulla lettera di contestazione disciplinare al datore di lavoro, leggi qui.

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L'autore: Claudio Garau

Laureato in Legge presso l'Università degli Studi di Genova e con un background nel settore legale di vari enti e realtà locali. Ha altresì conseguito la qualifica di conciliatore civile. Esperto di tematiche giuridiche legate all'attualità, cura l'area Diritto per Termometro Politico.
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