Il Tramonto dell’Occidente nella prospettiva di Carlo Galli

Pubblicato il 18 Febbraio 2019 alle 11:29 Autore: Piotr Zygulski

Il filosofo della politica Carlo Galli affronta il Tramonto dell’Occidente. Che cosa sta tramontando? C’è una ragione? Cosa è possibile fare?

Conferenza a Bologna del professor Carlo Galli su Spengler e il libro Il Tramonto dell'Occidente
Il Tramonto dell’Occidente nella prospettiva di Carlo Galli

Si è aperta con una conferenza del professore ed ex parlamentare Carlo Galli il primo degli incontri del Laboratorio di analisi politica 2019 organizzato a Bologna dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Quest’anno il tema del Laboratorio è “Tramonto dell’Occidente?”. Interrogativo, quindi, da porre al titolo del libro che Oswald Spengler scrisse un secolo fa; così come un punto di domanda è nel tema della conferenza che ha inaugurato il Laboratorio: “Spengler, e oltre: quali tramonti?”.

L’Occidente è dove il sole tramonta

Quindi, per poter parlare di “Tramonto dell’Occidente”, occorre problematizzare cosa sia il “tramonto”, cosa l’“Occidente” e che relazione ci sia tra i due termini. Nello scenario attuale di crisi della globalizzazione, di un paradigma economico e della politica – sino alla crisi del modello liberaldemocratico – si possono riscontrare delle «crepe che hanno prodotto un pluralismo mondiale», sotto l’unicità del modello economico capitalistico. Sembra banale, ma l’Occidente è per definizione la terra dove il sole tramonta, come risulta dalla stessa etimologia del termine “occasum”. Ma cosa accade dopo il tramonto? Qualcosa finisce e qualcosa ricomincia; ma si ripresenta la stessa cosa che è finita o qualcosa di diverso, come una crisalide diventa farfalla?

La decadenza, categoria del pensiero politico

Pure il concetto di “decadenza” è parte integrante delle categorie del pensiero politico moderno. La tensione politica delle opere di Machiavelli era volta anche a contrastare la decadenza, percepita come tendenza intrinseca al ciclo storico, nella sua ripresa della anakyklosis polibiana; Hegel, dal canto suo, affermò che in realtà è solo col “tramontare” che si sviluppano le capacità di comprendere, perché la filosofia, come la “nottola di Minerva”, ha bisogno che una tappa dello Spirito, che si esprime nelle forme della civiltà umana, sia sul punto di compiersi per consentire retrospettivamente la comprensione concettuale del senso razionale degli eventi. In sintesi, l’Occidente comprende sé stesso proprio tramontando e per il suo carattere dinamico e riflessivo ha fatto del tramonto la sua stessa essenza; non è mai mancata in Occidente l’attenzione «a ciò che si muove al suo interno, alla propria accidentalità, alle proprie contraddizioni», quindi la «consapevolezza della propria instabilità».

Trump e il declino dell’impero USA

Ne è segno che, proprio nell’apice della globalizzazione, soprattutto negli USA sono uscite molte opere di teoria politica sul tema della decadenza. Particolarmente temuta è l’analogia storica al Declino e caduta dell’Impero Romano, per usare il titolo dell’illuminista inglese Edward Gibbon.

«Anche quella di Trump, che ad alcuni sembra una politica di pazzi, altro non è che la politica di una superpotenza che sa di non poter più svolgere un ruolo (semi)mondiale, ma deve farsi i fatti propri, e già fatica a farseli al suo interno», commenta Galli.

isis usa trump

In tale posizione difensiva americana, però, i barbari non sono più così tanto “barbari”, bensì i cinesi; la loro civiltà ha quattro millenni e che in quattro decenni «ha fatto funzionare il capitalismo meglio di noi».

Spengler: le civiltà sono come le piante

Ne Il Tramonto dell’Occidente, Spengler applica alla storia delle civiltà il procedimento “naturalistico” dell’osservazione morfologica (concezione goethiana) che si basa sull’impiego dell’analogia, e non della ragione analitica o di quella dialettica; perciò ogni civiltà è concepita come una pianta che germoglia, si sviluppa e muore; in un inevitabile ciclo naturale o “destinale”. A Spengler non era possibile identificare in modo più determinato il nucleo di contraddizioni specifiche che fa entrare in crisi una civiltà, in quanto il suo procedimento intellettuale poggia su “negazioni indeterminate”, a differenza del procedimento dialettico, che si serve di “negazioni determinate”. Spengler, in linea col clima del tardo romanticismo tedesco, ragionava in termini di destino e di vaga profezia. Nell’oggetto del suo studio scorgeva una sorta di negatività naturale intrinseca (la crisi è già da sempre inscritta nello sviluppo; e lo sviluppo non è progressivo, ma conduce inevitabilmente a un declino).

In Spengler il relativismo tipico dello “storicismo tedesco” si radicalizza fino a rovesciarsi in un “naturalismo” antistoricista; prospettiva che non poteva che avere scarso successo nella cultura italiana, egemonizzata dallo storicismo assoluto di Croce. Nemmeno la cultura fascista ufficiale lo recepì; soltanto un filosofo della destra radicale, ma marginale rispetto al fascismo di regime come Evola, lo apprezzò traducendolo in italiano.

Spengler e la Germania che non c’era più

Un libro «senza grandi qualità intellettuali, eppure significativo per un’epoca», osserva Galli. È importante per capire la prospettiva di un uomo formatosi alla letteratura irrazionalistica di età guglielmina, che ricicla in modo «impressionistico e schematico» temi nietzschiani e goethiani. A livello personale, in Spengler risuona il timore delle megalopoli; lì nascevano i partiti di massa, con un’atomizzazione e una mobilizzazione sociale, che distruggono la tranquillità della Germania cui era abituato. Tutto però sarebbe necessario e portatore di tramonto: questa è vita o morte?

Per l’autore tedesco l’unica civiltà presente nell’Europa moderna sarebbe quella “faustiana” – perché come il Faust di Goethe vuole la scienza, l’attimo e l’infinito – che poco ha in comune con quella classica, improntata al senso dell’equilibrio, della misura e della finitezza. E le civiltà sarebbero come fiori nel campo del caos elementare della vita, l’humus dal quale emergono entità diverse tra di loro, che non possono essere giudicate valorialmente; la posizione di Spengler è estremamente relativistica, sotto questo profilo.

Sagome di persone, gente, folla, popolo

Sguardo acuto, ma risposte semplicistiche

Nonostante la strada prediletta dal tedesco per offrire risposte, spesso infondate, sia quella dell’isomorfismo tra le civiltà e il mondo della vita, Spengler – dice Galli rifacendosi ad Adorno – ha comunque uno sguardo molto acuto nel cogliere i problemi cruciali.

Egli vede il dinamismo continuo e inestinguibile di una civiltà orientata all’infinitezza, e tuttavia destinata ad una fine; in una sorta di anticipazione del concetto heideggeriano di “essere-per-la-morte”, a ogni civiltà, raggiunto l’apogeo, si prospettano decadenza e dissoluzione; ci sarebbero tappe precise, ma senza alcuna ragione universale che guidi il processo o ne concili i conflitti.

Il pensiero dialettico di Marx ragionava in termini di conflitti di classe e determinate dinamiche del profitto che conducono alla meccanizzazione della vita sociale. Diversamente, Spengler subisce il fascino del “destino” e assume senza mediazioni la compresenza paradossale di macchine statiche e denaro liquido. Borghesia, democrazia e parlamentarismo sarebbero le tecnostrutture continuamente erose dalla potenza della liquidità. Ad esse si associa la progressiva perdita di radicamento al “suolo”, cioè al substrato naturale-vitale, come concepito dalla cosiddetta “filosofia della vita”.

Perciò Spengler precisa che, anche se la chiara consapevolezza della crisi compare in un certo momento, ossia nella fase dell’incivilimento (Zivilisation), non vi è tuttavia momento dello sviluppo che non sia parte della decadenza. «Ti sviluppi anche decadendo; cresci decadendo», quindi emergendo – e quindi staccandosene – dalla matrice intima di ogni civiltà. La contraddizione non subentra ad un tratto, ma contribuisce alla crescita, in cui la nostra contraddittorietà è la ragione della nostra potenza. Sorprende però che Spengler attribuisca alla nostra morente civiltà “faustiana” un ultimo rigurgito di vitalità e potenza, che si esprimerebbe nel cesarismo. Si tratta del comando carismatico che trascende integralmente le forme della cultura liberale (libera soggettività individuale, confronto razionale, politica parlamentare, ecc.).

Il cesarismo prolunga l’illimitatezza dell’Occidente

Prefigurando le istanze della cultura di destra radicale del primo Novecento, per lui le «masse create dalla plutocrazia dentro le megalopoli hanno il destino di essere comandate da un nuovo Cesare»; «appare sulla scena potenza nuova collegata con il sangue e la razza che è potenza di ringiovanimento», con un potere politico forte che, in quanto parte della civiltà faustiana, deve essere aperto sull’infinito e sull’illimitato. Viene profilato uno scenario che troverà conferme negli sviluppi storici della società tedesca degli anni successivi. Anche se questo non comporta l’assimilazione di Spengler al nazismo; infatti la pubblicazione della sua opera avvenne un decennio prima dell’avvento di Hitler, e quando il nazismo andò al potere Spengler non vi aderì.

Non era una riflessione isolata, al tempo suo, quella del superamento delle forme della liberaldemocrazia fondata sul denaro, per trarre energia da forze più primordiali, come quelle del “sangue”. Ma cosa ci potrebbe essere al di là non tanto delle singole istituzioni, ma proprio della stessa civiltà faustiana, dopo questo suo «tramonto fiammeggiante»? Spengler non lo sa, perché l’«infinità del mondo occidentale pare non finire mai». Per chi si identifica con l’Occidente, paradossalmente il volume di Spengler «non è pessimistico, ma ottimistico», sostiene Galli. Infatti l’Occidente conserverà «lo squilibrio vitale e il principio di volontà di potenza, proprio passando attraverso il degrado delle sue istituzioni». L’essenza infinita della civiltà faustiana occidentale potrebbe perpetuarsi attraverso l’impulso di capi carismatici; le interne contraddizioni quindi non necessariamente abbattono il sistema, che è capace di sopravvivere in forme diverse.

Come affrontare il tramonto?

Si può assistere allo sprigionamento di energia di questo “tramonto” con un certo compiacimento, oppure provare a identificarne criticamente le cause. Adorno, solitamente più acuto, in questo caso, commentando Spengler si limitò, con risultati poco convincenti, a opporre al “destino” la tensione dell’“Utopia”; il neopositivista viennese Otto Neurath vi contrappose invece la nozione di “plurifuturo”, vale a dire lo sforzo di pensare a una pluralità di futuri aperti e possibili, anziché a un destino inesorabile perché inscritto in un decorso naturale.

Conferenza a Bologna del professor Carlo Galli su Spengler e il libro Il Tramonto dell'Occidente

Carlo Galli e lo sforzo della critica

Infine, concludendo il suo intervento, Carlo Galli avanza la sua proposta:

«Oggi dire tramonto dell’Occidente significa avere la forza di guardare ad alcuni fenomeni nel loro insieme, costruire un arco di crisi e non correre alla conclusioni più facili».

Se molti indizi ci fanno pensare che stiamo perdendo qualcosa, c’è pure il timore che si possa andare avanti comunque allo stesso modo, anche senza alcuna struttura democratica. Il compito è quindi doppio: leggere vari aspetti come sfaccettature di un’unica crisi e al contempo «resistere alla tentazione di vedere la nostra società come una pianta, come una forma
“naturale”». Allora va individuato «quel punto in cui è possibile discernere tra ciò che vogliamo cambiare e ciò che vogliamo conservare: può essere l’esatto opposto di ciò che sta avvenendo adesso». Infatti pare ora che si conservino le forme della volontà di potenza occidentale e di macchinalità del sistema capitalistico; stiamo invece perdendo gli elementi di soggettività razionale e di tutela sociale che pure sono stati prodotti della nostra civiltà.

Pertanto, solo con una puntuale analisi e una chiarificazione capace di cogliere contemporaneamente sia il tutto sia le parti; con fermezza intellettuale, si potrà agire di conseguenza. Unire e distinguere è precisamente il compito della ragione critica.

Piotr Zygulski e Stefano Sissa

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L'autore: Piotr Zygulski

Piotr Zygulski (Genova, 1993) è giornalista pubblicista. È autore di monografie sui pensatori post-marxisti Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa, oltre a pubblicazioni in ambito teologico. Nel 2016 si è laureato in Economia e Commercio presso l'Università di Genova, proseguendo gli studi magistrali in Filosofia all'Università di Perugia e all'Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), discutendo una tesi su una lettura trinitaria dell'attualismo di Giovanni Gentile. Attualmente è dottorando all'Istituto Universitario Sophia in Escatologia, con uno sguardo sulla teologia islamica sciita, in collaborazione con il Risalat Institute di Qom, in Iran. Dal 2016 dirige la rivista di dibattito ecclesiale Nipoti di Maritain. Interessato da sempre alla politica e ai suoi rapporti con l’economia e con la filosofia, fa parte di Termometro Politico dal 2014, specializzandosi in sistemi elettorali, modellizzazione dello spazio politico e analisi sondaggi.
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