Ha visto mio figlio? Sì, signora, è lì vicino ai secchi di uranio

Pubblicato il 17 Giugno 2019 alle 16:43 Autore: Nicolò Zuliani
Ha visto mio figlio? Sì, signora, è lì vicino ai secchi di uranio

Arizona, 12 marzo 2018
È una mattina qualsiasi nel museo del Grand Canyon, una baracca piena di terra, bestie impagliate, fossili e polvere che sorge nel parco nazionale e totalizza ben 800 visitatori l’anno, ovvero gente di passaggio che cerca un cesso e scolaresche in punizione. Il figlio di un impiegato del museo, appassionato di nucleare, gira con un contatore geiger divertendosi a fare rilevazioni.

Passa dunque le giornate a scrivere “0” sul suo taccuino finché, passeggiando nei pressi di una marmotta impagliata, il contatore emette il suo canto della morte: CRRcRRcRccCr. Invece di fuggire ventre a terra verso la prateria, il piccino indaga. Dopo una decina di minuti trova la sorgente che più solletica il contatore, tre secchi di plastica pieni di terra.

Uno è così ricolmo che non si chiude.

Trotta dal padre e riferisce il bizzarro fenomeno. L’uomo si consulta con gli altri impiegati e tutti concordano: faranno finta di nulla. L’opinione pubblica è fighetta, se si viene a sapere questa bazza dei secchi radiattivi è probabile rifiuti di mandarci i propri figli. Si rischia che il governo chiuda il museo e li lasci per strada; si limitano quindi a prendere i secchi, spostarli in magazzino e rimettersi a prendere il reddito di fannullanza come niente fosse.

Colorado, sei mesi dopo
Fino al 2016 Elston “Swede” Stephenson era un pilota di elicotteri della Marina Militare. Afroamericano, 45 anni, aveva fatto corsi sulla sicurezza e si era accorto che a bordo delle navi i marinai cadevano e morivano nello stesso punto. Aveva condotto un’inchiesta e fatto rapporto ai vertici, e l’avevano ignorato. Allora aveva mandato il rapporto più in alto, e l’avevano ignorato di nuovo. Alla terza volta era stato congedato e rispedito nel mondo civile con un nuovo lavoro: addetto alla salute, sicurezza e benessere nei parchi nazionali.

Lui è convinto sia perché è nero.

Mentre il processo per stabilire la verità procede, Swede sta in un centro congressi a fare il suo discorso dove raccomanda di non sottovalutare le ore più calde della giornata, bere molta acqua, farsi vedere da un medico in caso di punture d’insetti e indossare sempre le attrezzature di sicurezza. Scende dal palco tra mesti applausi e sbadigli, quando due tizi lo prendono in disparte, qualificandosi come impiegati nel parco del Grand Canyon.

«E qual è il problema, raghe?» domanda Swede «Malinconia da campagna?»
«Principalmente, sì» annuisce un impiegato «Ma anche fusti radiattivi

Swede racconta di aver sentito subito un “bad mojo”, cioè una specie di “cattive vibrazioni”, così prende la macchina e raggiunge il museo, dove gli vengono mostrati i tre secchi e raccontata la storia del bambino.

«Va bene, da quant’è che stavano esposti al pubblico?» chiede Swede.
«Circa dal 2000. Sono campioni di terriccio raccolti nel 1965 a Orphan mine.»
«Bel nome, promettente.»
«Sì. Perché i minatori son tutti morti di cancro ai polmoni. Al tempo fumavano tante sigarette, mentre picconavano uranio a mani nude e respiravano radon.»
«Tsk, il fumo è un viziaCOME URANIO?! Sarà mica terriccio radioattivo?!»
«Nooo, tranquillo. È scritto nella pratica, vede?» dice l’impiegato, puntando il dito «Uuu raa niii o. No terriccio.»

OOH SAY CAN YOU SEEEEE BY THE DAWN’S EARLY LIIIIGHT

Swede capisce che non si tratta solo di far colloqui motivazionali e dire alla gente di non superare le transennine; ma con tutti i casini personali che ha, non vuole coinvolgere forze armate, forze dell’ordine o qualsivoglia istituzione, perché sono antipatici e/o razzisti. Così contatta “un esperto di radiazioni” e quello si dichiara disponibile, ma sprovvisto di contatore geiger.
«Scusi, ma allora che razza di esperto è?» domanda Swade.
«Di radiazioni, mica di contatori geiger. Comunque conosco un tizio in Utah, dice che ha uno strumento capace di misurare ANCHE le radiazioni. Pigliamo la macchina e me lo presta sicuro.»

I due si incontrano e dopo un viaggio che, se documentato, sarebbe stato probabilmente il migliore road movie della Storia del cinema, tornano con un contatore geiger e fanno le misurazioni vicino alle marmotte impagliate. C’è un livello di 13.9 millirad (mR/hr) dov’erano i secchi e 800 mR/hr sulle superfici entrate a contatto con l’uranio, ma basta spostarsi di un metro e mezzo perché le rilevazioni vadano a zero. Negli USA l’esposizione media alle radiazioni è considerata 300 mR, quella massima consentita oltre questo limite è di 2mR/hr, o 100 mR all’anno.

Secondo i calcoli di Swede, un bambino entrato a contatto coi secchi è stato esposto a 1400 volte il valore consentito, e in quella stanza si svolgono spettacoli che durano anche trenta minuti.
Chiede all’esperto se è grave.

«Bè, grave è un concetto relativo» fa quello «Chernobyl è grave?»
«Sì.»
«E allora questo non è grave. Poi si fa presto a parlare di radiazioni, ma dipende da cos’aveva la gente addosso. Uno in camicia di flanella assorbe tot radiazioni, uno che gira con pantaloni piombati o uno scafandro da palombaro, meno.»
«C’è una marca che protegge meglio dalle radiazioni?»
«Sono informazioni riservate.»

Rasserenato, Swede si mette al lavoro per eliminare il problema. L’esperto di radiazioni acquista guanti da cucina, poi sopra ci mette guanti da giardinaggio, poi con un mocio rotto prende i secchi e li carica su un pickup. Per fortuna, qualcuno intuisce l’epica e scatta loro una fotografia nel momento culminante.

Guidano per un paio di miglia fino alla Orphan mine, scendono, afferrano i secchi e svuotano l’uranio a terra al grido di “ooooh-hop!”. Poi rimettono i secchi vuoti nel pickup e li riportano al museo. La storia finirebbe così, se solo il buon Swede, uomo ligio al dovere, non si premuri di redigere un rapporto con tanto di misurazioni e spedirlo ai superiori. Non appena la busta viene aperta, la bomba deflagra. Sul posto arrivano esseri umani senzienti, con strumenti adatti, e analizzano la scena.

In abbigliamento casual, tra l’altro

I giornali lo vengono a sapere e la storia scatena un vespaio. Il museo fornisce stipendi a svariate famiglie, così c’è chi in maniera più o meno velata tenta di minimizzare. Rachel Becker, su The Verge, partorisce quindi l’articolo (e il titolo) più bello del 2019:

THAT URANIUM ORE FOUND AT A GRAND CANYON
MUSEUM ISN’T AS SCARY AS IT SOUNDS

But it’s still not great

No, it’s still not great. Spiega che l’uranio veniva usato per spiegare ai geologi “ecco, questo è come appare l’uranio in natura” ed era “un legittimo strumento d’insegnamento”. Non riesco a immaginare quale possa essere la reazione di un geologo alla sorpresona, bisognerebbe chiederlo a Leo Ortolani. Nel frattempo sono felice di avere scelto un altro percorso di studi.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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