Martini, il solo e inimitabile

Pubblicato il 27 Settembre 2019 alle 19:28 Autore: Nicolò Zuliani
Martini, il solo e inimitabile

Nella fortunata (e meravigliosa) serie di film con William Powell e Myrna Loi, c’è la famosa scena in cui Nick, il detective interpretato da Powell shakera un Martini davanti ai barman spiegandogli che c’è una bella differenza di ritmo tra un Manhattan, un Bronx o un Dry Martini.

Quest’ultimo è considerato IL cocktail supremo, nonché l’unico tollerato dai puristi dello straight. Viene servito da oltre cent’anni in tutto il mondo ed è sopravvissuto persino durante l’epoca degli ombrellini e delle spalline imbottite, soprattutto grazie a Ian Fleming che lo faceva bere a James Bond.

Anche se Fleming, dal punto di vista dei cocktail, non ci ha mai capito un picchio.

La formula del Martini cocktail più antica disponibile è una parte di vermut secco, una parte di gin e un’oliva verde a volte farcita di piccante. Poi è passata alla Storia con una parte di gin, mezza parte di vermut e una scorza di limone. Negli anni ’50 gli hanno messo una cipollina dentro e l’hanno chiamato Gibson. Nei ’90 hanno sostituito al gin la vodka e l’hanno chiamato Vodkatini, anche se le persone con un minimo di buongusto (cioè gli europei) si limitano a chiedere un “Vodka Martini”.

Con la scorzetta di limone

Perché è così amato?

Perché è un’eccezione stranissima. Il Martini è un cocktail aggressivo che la prima volta può persino risultare sgradevole, se hai un palato giovincello. La magia arriva la seconda o la terza volta, quando ti rendi conto di quanti sapori e profumi ti capitano in bocca. Non puoi nemmeno fare sorsi, devi cominciare bagnandoti le labbra.

È l’archetipo dei gusti dell’adulto: poco e bene, invece di tanto e male. Riguardo all’oliva ci sono due scuole di pensiero, un po’ come l’acqua con il caffè: c’è chi preferisce prepararsi la bocca con il dolce pastoso dell’oliva e poi prendersi la legnata del ginepro, chi invece ci si tuffa e la usa come retrogusto finale.

Quello che mi ha spinto a imparare a bere (e a farmi da bere) sono i bar dei cinesi e le hall degli alberghi. Soldi non ne avevo, per lavoro dovevo girare per lupanari semideserti e mi trovavo da solo alle 23.30 con la voglia di bere l’ultimo prima di andare a letto, di solito per mandar giù i pensieri.

O le ultime duecento battute da inviare.

Adesso in qualsiasi bar, da riccastri o da falegnami, sugli scaffali dietro il bancone trovo sempre il necessario per passare una bella serata. E quando butta male, posso sempre scavalcare e farmelo io.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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