Irpinia, il terremoto che cambiò l’Italia

Pubblicato il 24 Novembre 2010 alle 14:15 Autore: Giuseppe Ceglia
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Presidente del Consiglio, ministri, sottosegretari, capi di partito, dirigenti Rai: sono quasi tutti campani, qualcuno lucano, in maggioranza meridionali. Non tutti democristiani, però. Anche liberali, comunisti, socialisti, direttamente o indirettamente, si sono rafforzati politicamente grazie al terremoto.

E così, tra un favore e un voto di scambio, il clientelismo ha dominato la scena meridionale per tutti gli anni del dopo sisma. Da una parte i politici, in cerca di voti e potere, dall’altra la popolazione, disposta a tutto pur di migliorare la propria condizione precaria. Due illegalità parallele unite dal silenzio di comodo. Un silenzio che non si può giustificare, perché ha creato disparità vergognose tra chi si è costruito tre case con piscina e chi è ancora oggi costretto ad abitare in case di legno se non nei container, soffocato dall’amianto.

Non c’è stato, in Irpinia, il senso della misura. La quantità indefinibile di denaro che sgorgò dalla fonte statale (senza dimenticare gli ingenti aiuti internazionali) ha generato mostri. Le cifre, inizialmente accettabili, nel giro di pochi mesi divennero spropositate. I comuni colpiti dal sisma e meritevoli di aiuti economici per la ricostruzione salirono da 36 a 687. Ogni sindaco e amministratore locale, anche a centinaia di chilometri dall’epicentro, si sentì in diritto di partecipare alla grande abbuffata senza averne il minimo diritto, senza che nel proprio paese fosse venuta giù neanche una tegola. E così la dispersione di denaro fece sì che ce ne fosse troppo poco per i paesi in cui serviva davvero.

Quello che più rattrista è che tutto si è risolto in una bolla di sapone: pochi responsabili sono finiti in carcere, molti sono fuggiti all’estero, la maggioranza (soprattutto politici) ha atteso che la giustizia facesse il suo (lentissimo) corso aspettando che i propri processi finissero prescritti.

Dicevamo che gli scandali sovrastano il dramma dell’individuo; ma sovrastano e annientano anche il lavoro dei sindaci che hanno lavorato bene. Una di questi è Rosanna Repole, primo cittadino di Sant’Angelo dei Lombardi, la cui opera di ricostruzione fu più volte citata e lodata dai maggiori quotidiani italiani e stranieri, dal “Giornale” di Montanelli alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Di quelli che hanno lavorato bene non ha memoria nessuno.

Si ha memoria, invece, della creazione di decine e decine di istituti di credito come la Banca Popolare dell’Irpinia (“la banca di De Mita”, la definì Paolo Liguori), che ingurgitarono i soldi stanziati in eccesso per la ricostruzione, conseguendo enormi profitti in meno di un lustro.

Si ha memoria delle aziende del Nord, che hanno usufruito delle sproporzionate sovvenzioni statali per industrializzare a costo zero una zona prevalentemente agricola. Molte delle fabbriche che venivano costruite in Irpinia non hanno mai visto l’apertura o un giorno di lavoro dei propri operai. Fallite senza mai essere nate. Un numero interminabile di progetti scriteriati, appalti, subappalti, con la collaborazione della Camorra e dei politici occasionisti, secondo la definizione di Isaia Sales.

Colate di cemento hanno ricoperto la verde Irpinia in nome degli interessi. Solo la metà dei fondi stanziati ha preso la giusta via, il resto della torta è andato ai politici, ai tecnici della ricostruzione, agli imprenditori del Nord e quelli locali. E alla Camorra niente? Certo che sì.

Il terremoto ha cambiato gli italiani, e anche i camorristi. Negli anni ’80 è gradualmente e inesorabilmente fallita l’idea di camorra di Raffele Cutolo, per fare spazio alle giovani menti “manageriali” dei nuovi clan, preparati a sfruttare al meglio le nuove opportunità che il sisma offriva. I clan Bardellino, Alfieri, Nuvoletta, Gionta, divennero in poco tempo delle vere e proprie società finanziarie capaci di controllare l’economia di un’intera regione e zittire chiunque intaccasse i propri interessi e denunciasse le proprie malefatte. Come Giancarlo Siani, giornalista del “Mattino” ucciso dal Sistema perché aveva osato scrivere che l’arresto del boss Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuv­o­letta per evitare un’insosteni­bile guerra di camorra con il clan di Bardellino.

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