Università, una riforma-pasticcio

Pubblicato il 29 Dicembre 2010 alle 11:08 Autore: Francesca Petrini
gelmini e università

Per quanto riguarda poi la “missione” dell’Università, ovvero la ricerca e la formazione delle future generazioni, la legge peggiora le condizioni per il diritto allo studio, riducendo drasticamente le borse di studio e, in particolar modo, non delineando alcun progetto di welfare studentesco. È dunque contraddetto il quarto principio tipicamente ispiratore della riforma, ovvero quello del merito: esso risulta infatti solo un vuoto programma laddove, senza una politica di diritto allo studio non può conseguentemente emergere il merito degli studenti meno abbienti.

Anche la mobilità non viene garantita e, anzi, paradossalmente si istituiscono meccanismi premiali per coloro i quali decidano di frequentare l’Università “sotto casa” anziché la migliore per il proprio percorso formativo. Questo è ciò che comporta la riserva di una quota del 10 per cento delle borse di studio agli studenti iscritti nelle Università della regione in cui risultano residenti, prevista dall’articolo 4, comma 3, lettera o) : una disposizione che appare suscettibile di ledere il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, problema peraltro già evidenziato nel parere espresso dalla 1a Commissione del Senato. Da questo stesso parere si possono poi ricavare altri elementi di incostituzionalità e di irragionevolezza della legge Gelmini: uno riguarda infatti l’articolo 5, comma 8, in relazione all’articolo 81 della Costituzione sul bilancio dello Stato, un altro l’articolo 6, comma 12, in relazione all’incompatibilità tra la condizione di professore a tempo definito e l’assunzione di cariche accademiche, ed un altro ancora l’articolo 24, comma 2, lettera c), in cui si evidenzia il ricorso ad una normativa di dettaglio che dovrebbe essere più correttamente contenuta in disposizioni di rango secondario come regolamenti che leggi.

Ancora, si può dire che la legge contiene una serie di disposizioni apparentemente innovative, come ad esempio il meno controverso caso della “Agenzia per la valutazione degli atenei”: per la prima volta si prevede che i fondi pubblici alle Università siano assegnati in funzione dei risultati e, purtroppo, immaginiamo sin da ora che ci vorranno anni prima che la nuova agenzia sia in grado di produrre i primi risultati. Ad ogni modo, pur ammettendo che questa nuova agenzia sia in grado di lavorare da subito, il lavoro sarebbe inutile perché non ci sono fondi adeguati che possano premiare le Università migliori (un paradosso evidente).

La ciliegina sulla torta è poi l’evidente pressappochismo che contraddistingue la legge Gelmini e che si materializza all’articolo 29, comma 11, lettera c), che abroga il comma 11 dell’articolo 1 della legge n. 230 del 2005, modificato dall’articolo 6, comma 5, della legge Gelmini stessa. In sostanza, il legislatore decide e non decide di voler sopprimere qualcosa (si veda l’articolo 29) e di volerla modificare allo stesso tempo (si veda l’articolo 6): com’è stato possibile che il legislatore volesse una cosa e allo stesso tempo il suo contrario? Il punto è che purtroppo non si tratta di una disputa accademica ma di un vero e proprio “sbrego” procedurale, per cui sarebbe stata a nostro avviso necessaria una seria presa d’atto dell’errore, con relativo emendamento correttivo, decisivo per il ripristino della coerenza normativa del testo di legge prima della sua pubblicazione ed entrata in vigore, ed una conseguente indispensabile “navetta”, ovvero un ulteriore passaggio alla Camera. Quello che invece è avvenuto è stato lo show down di martedì 21, durante il quale la presidente di turno leghista Rosy Mauro, proprio a partire dall’emendamento del PD che denunciava l’errore, innescava una bagarre tale da produrre ben quindici votazioni annullate e fatte rifare da Schifani. Così, la questione si è conclusa con la maggioranza che “concede” solo che i senatori dell’opposizione possano usare, a fine lavori, l’articolo 103 del Regolamento del Senato per chiedere il c.d. “coordinamento formale”, un meccanismo teoricamente pensato per quando si scopre, alla fine, che ci sono dei “pasticci” nel testo legislativo, e non certo per quando i “pasticci” si conoscono prima e sono quindi evitabili. Il Senato ne esce umiliato: ha votato scientemente nella stessa legge una cosa e il suo contrario, sapendolo prima.

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L'autore: Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparte, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.
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