1928: 48 giorni all’inferno, un regime e un processo infame

Pubblicato il 24 Settembre 2020 alle 18:00 Autore: Nicolò Zuliani

Di tutti i Carabinieri che Mussolini poteva scegliere, proprio quello doveva capitargli? Sì, quello.

Il dirigibile Italia si era comportato bene, fino a quel momento. Partito da Ciampino il 19 marzo 1928, aveva dovuto far scalo in Pomerania solo perché la grandine aveva danneggiato alcune superfici di controllo, ma era arrivato alla base di Baia del Re il 10 maggio in forma smagliante. L’obiettivo, ufficialmente, erano tre semplici voli esplorativi: nel concreto, non era un caso se il dirigibile si chiamava Italia.

Doveva dimostrare agli occhi del mondo che l’aviazione fascista non era seconda a nessuno.

Mussolini seguiva la spedizione da vicino, e a bordo era stato messo un giornalista de “Il popolo d’Italia” per documentare ogni momento. Il Pontefice in persona aveva consegnato al capitano e progettista, Umberto Nobile, una croce da piantare nel pack. I primi due viaggi erano andati bene. Il primo, l’11 maggio, era durato otto ore, poi il tempo era peggiorato e aveva congelato i timoni, costringendo l’equipaggio a rientrare. Il secondo era andato una meraviglia; tre giorni di rilievi cartografici, misurazioni e test con le attrezzature d’avanguardia fornite dal Partito fascista. Il terzo viaggio era quello più importante e ambizioso.

Portare l’Italia al polo nord

(AFP/Getty Images)

A bordo c’erano 16 uomini e la cagnetta del capitano, Titina, nome di una canzone del 1925 di Roberto Ciaramella. Erano decollati alle 4.28 del 23 maggio e arrivati sopra il polo alle 0.24, quasi 20 ore di volo aiutati dal forte vento di coda. Era fatta; Nobile aveva lanciato a terra un tricolore italiano, il gonfalone di Milano e la croce di legno donata dal Pontefice, avevano celebrato bevendo Bombardino e comunicato via radio al Duce, al Re e al Papa il successo.

I problemi erano iniziati quando dovevano tornare.

Alle 2.20, invertita la rotta, si erano trovati contro il vento che li aveva aiutati. Dopo 24 ore di temporale, sulle eliche si era formato ghiaccio che veniva sparato contro l’involucro pieno d’idrogeno. La nebbia gelida rendeva impossibile qualsiasi riferimento visivo e la bussola, nel polo magnetico terrestre, non è d’aiuto. Alle 9.25 il timone si era congelato in posizione di discesa, inclinando la prua a soli 250 metri da terra.

Il capitano Umberto Nobile e la cagnetta Titina, Archivio GBB / Contrasto

Alle 10.27 del 24 maggio 1928 il dirigibile Italia impatta al suolo

La navicella si disintegra sui ghiacci spaccandosi a metà e staccandosi dal dirigibile; dieci uomini finiscono a terra tra cui il capitano e Titina. Sei rimangono intrappolati nel pallone, che senza più zavorra né comandi riprende quota portandoli verso la morte. I sopravvissuti si accorgono di avere avuto fortuna: al suolo sono rimaste provviste, radio, carburante e una tenda rossa. Possono sperare di sopravvivere nell’attesa dei soccorsi, che in madrepatria non sono la prima preoccupazione.

Mussolini non può tollerare il fallimento; l’Italia fascista doveva conquistare il polo nord per dimostrare la propria potenza al mondo, non schiantarcisi sopra e avere il mondo che gli offre una manina. Accetta mal volentieri gli aiuti internazionali di Francia, Germania, Finlandia, Norvegia, Svezia e URSS, che pur impegnandosi non combinano granché. Nessuna nazione può elevarsi a coordinatrice, perciò è una specie di caccia al tesoro casuale.

Il colpo di fortuna arriva quando un contadinello di Arcangelo, nell’Unione sovietica, capta l’SOS trasmesso dalla radio a onde corte. Le coordinate saltano fuori dopo una settimana, mentre i sopravvissuti abbattono un orso polare a revolverate ottenendo scorte di proteine surgelate, seppelliscono un morto per emorragia interna e uno di ipotermia, partito a piedi per tentare di trovare aiuto.

Dopo 48 giorni li trovano, ma recuperarli è un altro discorso

Un idrovolante ci prova e si schianta uccidendo pilota, copilota e telegrafista. Una guida alpina, Giulio Guedoz, muore nel tentativo di raggiungerli in slitta. Alla fine ci pensa un rompighiaccio russo.

Mussolini e il regime hanno bisogno di spiegare il fallimento e salvare la faccia. Per condurre le indagini serve qualcuno di immacolata moralità, rispettato dal popolo, capace di muoversi tra la gente e i paesi del nord con temperature proibitive e pochi mezzi. A tutti viene in mente un nome, ma Mussolini rifiuta. Lo odia, quel nome, ed è ricambiato con ferocia. Purtroppo nessuno è all’altezza dell’incarico, così il Duce è costretto a far squillare il telefono del colonnello dei Carabinieri reali Cosma Manera.

L’odio tra i due ha radici antiche

Cosma era partito per la Russia nel 1917 con il compito di riportare in Italia 5,000 prigionieri austroungarici; invece era finito in Cina con 20,000 uomini rimessi a nuovo che lo veneravano come un Dio guerriero e lo chiamavano “padre”. La cosa aveva terrorizzato Roma e Mussolini, perché ci vedeva una replica in grande stile della presa di Fiume.

Cosma a Tien Tsin il giorno del giuramento degli irredenti

I globuli rossi del fascismo sono sempre stati i reduci maltrattati, e Mussolini era riuscito ad avere così tanto ascendente solo grazie a loro. In Cosma vedeva un pericoloso emulo di D’Annunzio, ma sbagliava: al maggiore interessava solo riportare a casa i suoi ragazzi – e una ragazza, ma è un’altra storia.

Roma aveva quindi temporeggiato, lasciandoli lì e passando il comando di missione a un colonnello mandato apposta, di acclarate simpatie fasciste, e trasferendo Cosma Manera a Tokio.

Purtroppo Cosma era Cosma. A Tokio era appena scoppiata la rivolta del riso, partita da una protesta e diventata guerra civile. Cosma sapeva come cavarsela e fu d’aiuto, tanto che il primo ministro giapponese gli donò la propria spada dell’onore in segno di riconoscimento e tre piroscafi, inizialmente destinati agli Stati Uniti – che se la presero a male.

Cosma a Tokio tra le geishe

Con quelli Cosma riportò a casa i suoi nel 1920. Poi continuò ad andare e venire dalla Russia, dove i suoi uomini continuavano a recuperare dispersi con sempre più difficoltà. Nel 1923 Mussolini bloccò tutto, dicendo che erano spese inutili per poche centinaia di uomini e trasferì Cosma Manera a Bologna.

Le indagini furono semplici.

A Cosma bastò interrogare i sopravvissuti e convocare periti perché il risultato fosse evidente: non si era trattato né di sabotaggio né di decisioni sbagliate. Semplicemente, il dirigibile non era in grado di affrontare condizioni tanto estreme. Una volta consegnati i fascicoli Mussolini s’arrabbiò, li fece insabbiare e tolse l’incarico a Cosma, imbastendo un processo farsa dove tentava di dimostrare che la tragedia era dovuta solo alla codardia e incompetenza del comandante Nobile, il quale dopo aver visto i propri sogni infranti, i propri uomini uccisi e 48 giorni d’inferno, dovette ascoltare infamie d’ogni genere sul suo conto.

L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
Tutti gli articoli di Nicolò Zuliani →