“Obamagate” – Recensione

Pubblicato il 15 Ottobre 2020 alle 10:42 Autore: Redazione

Esce “Obamagate” il libro inchiesta di Gianluca Borrelli che propone una visione indispensabile per chiunque voglia conoscere questa vicenda

Obamagate

“Un’inchiesta accurata e puntualmente documentata che propone una visione diversa rispetto a quella ripresa dalla stampa italiana, indispensabile per chiunque voglia conoscere questa vicenda con spirito critico e senza risposte preconfezionate”, così L’Osservatore Repubblicano apre la sua recensione su “Obamagate”, l’ultimo libro di Gianluca Borrelli, fondatore di Termometro Politico.

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In questo libro viene esposta una sequenza di fatti narrati sia da giornali e protagonisti ostili a Trump che da quelli favorevoli. L’autore non fa altro che rimetterli in fila, uno dietro l’altro, per come sono accaduti, non per come sono stati raccontati. Eppure l’opera di sistemazione dei fatti nell’ordine corretto pare essere l’unica cosa che conta ad oggi per capire cosa è stato il Russiagate. Un caso che, dopo aver confrontato narrazione dei fatti stessi e la concretezza dei loro accadimenti, soprattutto grazie alla pubblicazione di documenti fino a quel momento tenuti segreti, si è velocemente trasformato, appunto, in Obamagate.

Basta andare a guardare innanzitutto le date, come ha fatto l’autore, per ribaltare alcuni dei presupposti sulle interferenze russe che avrebbero portato Donald Trump a conquistare la Sala Ovale. Nel libro vengono messe in evidenza alcune incongruenze temporali, venute fuori grazie ai documenti de-secretati, che fanno vacillare l’impianto accusatorio. Sono state rese pubbliche inoltre molte note personali (anche sotto forma di messaggi privati) dei protagonisti della vicenda, che chiariscono le reali motivazioni dietro molte azioni intraprese da loro. Una sequenza di intrecci che, come in un film di spionaggio molto complicato, vede i vari attori seguire strade parallele che sottendono una trama comune.

Dopo le date, nel libro si passa in rassegna le prove presentate dagli accusatori di Trump: un enorme mole di materiale che, in pratica, non contiene niente. Chiacchiere da bar, insinuazioni, dicerie, e nella migliore delle ipotesi evidenze circostanziali”, per usare l’espressione utilizzata da uno dei testimoni chiave del Russia-Gate. In molti casi viene da chiedersi “e pure se fosse vero esattamente quale sarebbe il crimine o cosa dovrebbe dimostrare tutto questo?”, soprattutto se la parte avversa fa le stesse cose nello stesso momento, se non peggio, ma a quasi nessuno viene in mente di guardare in quella direzione.

Interrogazioni, commissioni, dibattiti: tutto si è basato su una lunga serie di fraintendimenti, ipotesi poco informate e vere e proprie calunnie. In pratica, spiega l’autore, “pubblicamente gli accusatori dicevano delle cose” mentre quando erano “sotto giuramento in audizioni segrete dicevano tutt’altro”. Anche per gli stessi accusatori, insomma, era ben chiaro che le accuse non stavano in piedi (“there is no there there“).

Il loro obiettivo, probabilmente non era ottenere un procedimento giudiziario (per il quale sapevano bene di non avere prove), ma quello di portare Trump di fronte a un sorta di tribunale mediatico. Grazie a dei media compiacenti (gli stessi da cui attingono i media italiani), si voleva che la gente pensasse che c’era qualcosa di molto grosso sotto”, insomma, gli accusatori “speravano che dei pregiudizi, amplificati da insinuazioni instillate dai media, si trasformassero in una condanna politica”.

Perché tutto questo? Perché l’elezione di Trump ha messo in difficoltà i tradizionali attori della scena politica americana: i massimi vertici sia del partito avversario che del suo stesso partito. Gli obiettivi di costoro erano gli stessi dei burocrati storici (il famoso “Deep State”), e soprattutto dei grandi gruppi editoriali, posseduti da grosse corporazioni e monopoli de facto. Era naturale che si coalizzassero contro il nemico comune, quello che Nancy Pelosi (Speaker of the House, l’equivalente del nostro Presidente della Camera) definisce “usurpatore“, non appartenendo Trump a questa oligarchia che ritiene di essere legittima detentrice del potere, in America e nel mondo. Una volta chiariti gli schieramenti in campo ognuno poi sceglie quello che ritiene complessivamente migliore o per lo meno il male minore.

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