1999: l’interessante storia del Voodoo club e della ristorazione italiana

Pubblicato il 18 Dicembre 2020 alle 14:05 Autore: Nicolò Zuliani

Un aneddoto dritto dai magici anni ’90, quando internet non esisteva e tutti avevamo più fiducia nell’umanità.

Verso la fine degli anni ’90, in Italia, chi apriva un locale doveva avere un’idea. Per le generazioni di oggi è difficile da immaginare, ma ogni pub o ristorante dovevano avere un’identità. Un esempio grandioso è stato il Bennigan’s pub a Trieste, dove gli interni erano stati presi a Camden town per una cifra monstre e portati in Italia con tre container di roba.

All’interno si mangiava solo roba da pub inglese, la musica era stile grammofono del 1900, e quando entravi ti pareva di stare in un’altra epoca. Se fuori c’era il freddo e la nebbia, entrare al Bennigan’s era una delle grandi gioie della vita.

Poi le cose cambiarono.

Spaventati dalle visite che calavano (cosa tipica quando finisce il primo entusiasmo) i ristoratori avevano deciso di “cambiare”, che nella pratica significa aggiungere bandierine fuori. Nessuno sa perché, ma è un must da sempre. Ancora oggi, se all’esterno di un locale ci sono bandiere di germania, spagna, francia, quel locale è prossimo al collasso.

Al Bennigan’s andò nello stesso modo. All’improvviso nel locale il caminetto era spento, trovavi musica della radio normale, interni trasandati e sporchi, cucina qualsiasi. In meno di un anno aveva perso l’identità, e la gente ne era fuggita preferendo posti con più carattere.

Il Voodoo club fu un’idea folle, oggi che esiste Internet.

Un imprenditore veneto già ricco di suo aveva ereditato una grossa somma e una vecchia casa. Invece di venderla, ebbe un’idea: trasformarla nel Rick’s cafè di Casablanca. Spese una fortuna tra architetti, falegnami, tappezzieri, giardinieri. La mia falegnameria contribuì a fare i separèe alla veneziana e parte del banco bar.

L’idea era di farne un club ricercato per ospiti di fascia altissima. Terminato l’interno, si mise a cercare il personale. Prima si affidò alle agenzie di collocamento, ma quelli che fornivano non gli piacevano per nulla. Così si mise a raccattarli dalla strada, e intendo letteralmente. Il nero che vendeva accendini e CD piratati, il nero che spacciava droga, il nero che viveva sotto un ponte, il clandestino sfruttato dai cinesi. Bastava avessero la pelle nera e voglia di fare.

L’imprenditore passò le serate nel locale chiuso a insegnare come servire ai tavoli, come fare da bere, come far da mangiare. Alcuni rubarono quel poco che c’era e tagliarono la corda. Altri rinunciarono. Ma ben dodici diventarono personale professionista ed estremamente motivato. Quelli che non avevano alloggio vennero sistemati nel piano di sopra. Uno aveva addirittura una moglie e un figlio piccolo, e vennero assunti pure loro: la moglie girava offrendo sigari e acqua, il bambino era troppo piccolo per lavorare, così venne messo a gironzolare come mascotte.

Dopo sei mesi di lavori e lezioni aprì il Voodoo club

Un posto dove ogni cameriere era nero, con fez e guanti bianchi, e portava vassoi d’argento e bicchieri di cristallo. Potete facilmente immaginare il seguito.

Siccome all’epoca vivevo in un garage subaffittato a sala prove, non avevo certo modo di andarci – né interesse. Ma per un annetto il club fece numeri enormi, i camerieri riuscirono a mettersi da parte dei soldi e mandarli alle famiglie, tutto procedeva per il meglio perché servizio, ambiente, ingredienti e mood erano ottimi, ben al di sopra degli altri locali. I ristoratori se la presero a male e andarono dai giornalisti a dire che era un club di razzisti.

Era la polemica perfetta per le elezioni in arrivo, e la storia del locale dello schiavista scatenò un polverone. Si disse che bisognava boicottarlo, che era indegno di una regione civile. I centri sociali iniziarono a manifestare e vandalizzarlo, gli editorialisti VIP del luogo tuonavano contro il negriero.

Alla fine, il Voodoo club chiuse tra l’ovazione della folla.

Il gestore abbandonò la ristorazione per andarsene all’estero, i camerieri finirono disoccupati nonostante avessero maturato un’esperienza gigantesca; sia perché nessuno voleva assumerli per non rischiare di essere associato al Voodoo club, sia perché la clientela degli altri ristoratori preferiva il personale straniero rimanesse in cucina. Di dodici che erano, otto tornarono alla loro vita precedente. Gli altri dovettero cambiare regione.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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