Un vecchio giornalista cittadino del mondo mi racconta una storia

Pubblicato il 30 Dicembre 2020 alle 18:24 Autore: Nicolò Zuliani

Dato che va di moda fare parallelismi con gli altri anni orrendi nella Storia, io ho provato a farne con l’Italia degli yuppies e quella degli startupper

Ricordo di aver conosciuto Ezio in uno di quei salotti letterari milanesi con il tavolo pieno di tarallucci e vino. Era un uomo insopportabile, ma aveva dentro una sorta di rabbia dolorosa che mi intrigava. Mi ero offerto di dargli un passaggio a casa, lui era entrato nella 600 ammaccata e aveva detto “bello schifo di macchina”. Era talmente sgarbato e maleducato che volevo saperne di più.

Dopo due sigarette, arrivati sotto casa mi disse che cinque anni prima era un giornalista di punta in una rivista della grande M. Si occupava di viaggi e le cose andavano sempre meglio, così si era indebitato con una banca per comprarsi un appartamento più grosso, dato che gli stava arrivando il secondo figlio. Scoppiata la bolla, si era trovato pieno di debiti.

Nel nuovo mondo del giornalismo post Tangentopoli, Ezio aveva una colpa gravissima: era vecchio. Sull’onda emotiva del nuovo e del giovane le redazioni avevano sostituito vecchi cronisti professionisti a giovani idioti e inesperti. Fu la grande retata che buttò i blogger nelle case editrici, nelle redazioni e sulle copertine.

«Ero diventato un giornalista qualunque» disse «Nessuno aveva più bisogno di me.»

Ezio aveva provato in tutti i modi a stare al passo. Aveva studiato l’inglese prima che esistessero film e serie TV sottotitolate. Aveva aperto un account MySpace. Usava ICQ, MSN, ma non poteva competere con ragazzini che si erano formati nei forum e facevano gif e fotomontaggi con Photoshop, o scrivevano come fulmini. Mentre il mondo scorreva inconsapevole, nei primi forum s’era formato un nuovo linguaggio che aveva reso il vecchio giornalismo una lingua morta come il sanscrito.

Sebbene Ezio fosse insopportabile, provavo pena per lui.

Oggi siamo inclini a dire “lavoro ce n’è se hai voglia di farlo”, e ci fa sentire più tranquilli. Oppure diciamo “guarda quello, il cellulare però ce l’ha”. Dimentichiamo come si stava a Milano o in Italia qualche anno fa, nei tempi della prosperità. Allora ogni uomo che avesse un lavoro o qualsiasi genere d’introito era portato sull’orlo della pazzia dai venditori. Lo tartassavano gli spot, la pressione sociale, i cartelloni, i giornali, i film. Gli veniva inculcata la sensazione che non era un vero uomo se non faceva un debito per comprare una macchina o un televisore. Tutti i pezzi grossi gridavano “spendete! Spendete!”.

Bè, il poveretto spendeva.

Milano è una città di persone che si sono mozzate le radici per far salti nel vuoto, inseguendo il mito americano del self made man. Ma come tutti i funamboli vivono nell’insicurezza, e ogni volta che incrociano un paio d’occhi devono spiegargli la trama della propria vita. Che non è quella reale, è quella che si raccontano per riuscire a dormire. Tutto questo nel nome del progresso.

Progresso.
Progresso.
Essere progressisti.

Quello che non hanno detto è che servono soldi, per essere progressisti. Senza, sei un povero che si racconta baggianate. Quindi la mentalità USA s’è scontrata con quella italiana, creando un paradosso in cui i soldi sono sia lo specchio del proprio successo che una colpa. È sempre il modo più semplice, giudicare qualcuno dai suoi successi economici. È anche il più stupido, perché rende una prostituta più vincente di una ricercatrice, uno spacciatore più vincente di un macellaio, uno scafista migliore di un soldato, uno che traffica organi migliore di un impiegato.

Ezio, per quanto avesse lavorato duro tutta la vita, si sentiva in colpa. Non biasimava la società, o il fatto che ormai l’informazione è una pagliacciata. Sentiva invece di non essere un buon milanese perché non aveva saputo innalzarsi al di sopra dei suoi simili. Avrebbe dovuto essere più furbo. Più “figlio di puttana”, più “paraculo”.

Oggi m’è finito sotto gli occhi questo articolo, e m’è tornato in mente Ezio. Un articolo che cerca di raccontare la vita di uno schiavo alienato come se fosse trendy. Il “co living” l’ho vissuto negli appartamenti universitari di Trieste e Bologna. Topaie fatiscenti fuori da ogni norma, dove vivi come ratti in camere doppie, triple o quadruple mentre ti fai la pasta su cucine economiche anni ’60, pareti spaccate e mobili marci. La parte stupenda è “proprio gli USA e l’Asia sono i posti dove il co living ha attecchito di più”.

Ci credo: sono due posti dove gli stipendi hanno perso qualsiasi attinenza con la realtà e gli affitti sono deliranti. Non è che lo scelgono, non hanno alternativa. Ed è talmente innegabile che lo raccontano sia Il Giornale che L’Internazionale. Non parliamo poi della Cina, dove è normale lavorare 11 ore per poi andare a dormire in strada o in un cubo di cemento. Questa roba è adatta a bestie d’allevamento. Eppure molti sembrano non accorgersene, o non volerlo vedere.

Forse perché si sentono in colpa.
Perché non sono buoni cittadini del mondo, se non vivono in co living e come soddisfazione ti possono raccontare la trama della loro vita.

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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