La cattedra e il crocifisso

Pubblicato il 5 Novembre 2009 alle 09:24 Autore: Andrea Carapellucci

Il Tribunale, alle prese con la classica “patata bollente”, chiedeva alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla compatibilità delle norme che prevedono l’esposizione del crocifisso con la Costituzione. La Consulta, non particolarmente desiderosa di pronunciarsi sul punto, dichiarava “manifestamente inammissibile” la questione. Queste le motivazioni: l’obbligo di esporre il crocifisso deriverebbe non da norme di legge, ma da disposizioni aventi valore di regolamenti governativi, sulla cui legittimità può pronunciarsi anche l’ultimo dei Giudici di Pace, ma non la Corte Costituzionale. Un approfondimento sarebbe interessante, ma basti dire che la patata bollente veniva così abilmente restituita al giudice amministrativo, senza costringere la Corte a decidere alcunchè.
Rassegnati, loro malgrado, a dover “rendere giustizia”, il T.A.R., prima, e il Consiglio di Stato poi, respingevano il ricorso, affermando che il crocifisso, pur essendo simbolo religioso, sarebbe altresì un simbolo dell’identità nazionale italiana, capace di rappresentare valori “repubblicani” quali la tolleranza e la laicità dello Stato (sic). Su questo argomento insisterà l’Italia anche davanti alla Corte di Strasburgo, ed è pertanto opportuno sottolinearlo.
Esauriti tutti i gradi del giudizio nazionale, i coniugi Lautsi si rivolgono quindi alla Corte Europea. A loro dire, infatti, l’esposizione del crocifisso violerebbe alcune disposizioni della Convenzione ratificata dall’Italia, e di uno dei protocollo aggiuntivi alla stessa.
Una, in particolare, la norma invocata:
«Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche» (art. 2 del I° Protocollo addizionale).
Tutti i genitori hanno il diritto di educare e far educare i loro figli secondo le proprie convinzioni religiose. Lo Stato deve rispettare tale diritto.

La domanda a cui la Corte ha dovuto rispondere era quindi se l’esposizione del crocifisso in un aula scolastica ledesse tale diritto dei genitori, oltre che la libertà dei bambini di scegliere se essere o meno credenti. Tutte le considerazioni sulla natura di simbolo religioso, o nazionale, o religioso ma anche laico, del crocifisso, passano quindi in secondo piano, e sono considerate dai giudici europei solo nella misura indispensabile a decidere la questione.
La condanna dello Stato italiano è basata sulle seguenti argomentazioni.

Per ottemperare alla Convenzione e al Protocollo, ogni Stato membro deve “astenersi dall’imporre, anche indirettamente, un credo religioso nei luoghi dove le persone sono alle sue dipendenze (“sont dépendantes de lui”) o ancora nelle circostanze in cui sono particolarmente vulnerabili”. I bambini, per la loro giovane età, “sono privi della capacità critica che consentirebbe loro di prendere le distanze dai simboli che manifestano una preferenza dello Stato per un particolare credo religioso (“prendre distance par rapport au message découlant d’un choix préférentiel manifesté par l’Etat en matière religieuse”). Il crocifisso è simbolo che ha certamente molti significati, ma quello religioso è da ritenersi prevalente. La presenza del crocifisso può essere interpretata dagli scolari come un simbolo religioso, ed essi possono percepire di essere educati in un ambiente contrassegnato da una religione  di Stato. Ciò può essere d’incoraggiamento per gli allievi credenti, ma può turbare coloro che professano un’altra religione o non ne professano alcuna. In conclusione, “la Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria del simbolo di una confessione religiosa nell’esercizio di una funzione pubblica, e in particolare nelle aule scolastiche, restringa il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le proprie convinzioni (art. 2 Protocollo addizionale) nonché il diritto degli scolari di decidere se essere o meno credenti (art.9 Convenzione)”.

All’indomani della pubblicazione della sentenza, il Governo italiano ha annunciato un immediato ricorso. La Convenzione prevede che, contro le sentenze della Corte, sia possibile ricorrere alla Corte stessa, ma in una diversa composizione, comprendente diciassette giudici (la “Grande Camera”).

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L'autore: Andrea Carapellucci

Analista giuridico di TP, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino ed è dottorando in Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Milano.
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