Recensione de “Le cose che ho imparato” di Gianni Riotta
Dal libro si evince una voglia, mai sopita, di Sicilia. Nonostante gli anni passati all’estero e i riconoscimenti ottenuti, Riotta pensa sempre con nostalgia agli anni ’60 siciliani. Sicuramente il far parte di una famiglia benestante lo ha tenuto al riparo dalla miseria e dalla violenza presente in quegli anni a Palermo, ma questo non ha impedito allo scrittore di fare le sue esperienze di vita, come quella di attraversare un quartiere di Palermo “nemico”, perché tenuto da una “banda” rivale di ragazzini, a testa alta e sotto una fitta sassaiola.
La difesa tenace della sicilianità, la voglia di difenderla non per partito preso ma per meriti oggettivi, la necessità di ricordare Pirandello o Sciascia come scrittori europei e non siciliani, la voglia di sapere nel senso più alto del termine, la strenuità con cui cita, per cercare di salvarli dall’oblio, i proverbi ed i modi di dire anche in questo terzo millennio così avanzato, emerge in ogni pagina.
Riotta ci parla senza peli sulla lingua di sé e della sua famiglia, addirittura citando una sua zia che avrebbe avuto un “incontro” con Gabriele D’Annunzio, facendoci vedere non la vita di un giornalista della carta stampata e televisivo, ma quella di una persona normale che, con molto impegno e sacrificio, è riuscito ad arrivare fino in cima alla sua professione senza mai dimenticare le sue origini.