L’Europa è in guerra?

Pubblicato il 5 Luglio 2012 alle 19:14 Autore: Matteo Patané
Indubbiamente, non sarebbe corretto pensare ad un continente pacificato: sono troppo recenti le crisi dei Balcani degli anni ’90, gli scontri succedutisi alla caduta dell’Unione Sovietica e le attuali politiche di repressione russa in Cecenia per poter coltivare una simile utopia; è tuttavia innegabile che il nostro continente sta vivendo un periodo notevolmente lungo di sostanziale pace e stabilità rispetto alla definizione di guerra riportata.
Tuttavia dalla semplice lettura di Wikipedia emerge una certa ambiguità di fondo, che lascia spazio ad analisi più approfondite sulla situazione del continente ed in particolare dell’Unione Europea: la riduzione del concetto di guerra a quello di conflitto armato lascia, infatti, un vasto cono d’ombra tra lo status di guerra e quello di pace che apre interrogativi di fondo molto importanti.
È possibile che l’Europa, pur non in guerra, non stia in realtà vivendo un reale periodo di pace? È possibile ritenere che ci ritroviamo a vivere un periodo storico in cui le antiche ambizioni di egemonia continentale, che a corrente alterna hanno attraversato tutte le nazioni europee si stiano riproponendo e manifestando in nuove forme, forme che per una volta non vedono l’impiego di eserciti sul campo? È possibile, infine, che sia in corso una guerra interna all’Europa, una guerra invisibile perché non riconoscibile, perché lontana dalla definizione generalmente offerta a tale sostantivo?
Per rispondere a queste inquietanti domande, il primo passaggio è indubbiamente comprendere quali sono le meccaniche che individuano uno stato di conflitto, e capire se sono presenti nella realtà attuale.
Come riporta Wikipedia, vi sono mille motivi in grado di scatenare un conflitto, ma a livello generale tutte le guerre possono essere ricondotte a due filoni principali:

  • le guerre ideologiche, in cui il tema dominante è l’imposizione della propria visione al nemico, o al contrario la liberazione da una imposizione pre-esistente; il massimo esempio di questa categoria sono naturalmente i conflitti religiosi e, portando al limite il concetto, le guerre di sterminio
  • le guerre di conquista, in cui lo scopo dichiarato è acquisire vantaggi economici e/o territoriali nei confronti del nemico, a cui appartengono sostanzialmente tutti gli altri tipi di conflitto

Il secondo passo della catena logica è una semplice ma focale constatazione: come hanno dimostrato gli episodi di neocolonialismo in Africa, non occorre la conquista militare di un Paese per renderlo proprio vassallo, così come non occorrono necessariamente raid aerei, cannoni e nemmeno virus informatici per danneggiare e indebolire uno Stato.
Se uno Stato inizia ad acquisire rilevanti settori dell’industria di un Paese straniero, se ne è fornitore privilegiato di materie prime oppure energia, se infine ne controlla il debito pubblico attraverso una sapiente esposizione verso i suoi titoli di Stato, diventa evidente come si arrivi lentamente ma inesorabilmente ad instaurare un rapporto quasi di protettorato tra lo Stato più forte e quello più debole, che riesce a mantenere solo nominalmente la propria sovranità.
Questo genere di conquista soft è naturalmente meno sicuro di un attacco militare, proprio perché le armi potrebbero essere l’estrema risposta dello Stato più debole per aprire una breccia nei vincoli economici di sudditanza in cui si ritrova a dibattersi, ma in una cultura uscita dall’orrore di due Guerre Mondiali una simile azione appare sostanzialmente relegata al ruolo di ipotesi accademica.

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L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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