El Maracanazo

Pubblicato il 18 Luglio 2012 alle 22:02 Autore: L Undici
Il Maracanà

Il format di quei mondiali fu inconsueto: invece delle classiche partite ad eliminazione diretta, la classifica finale doveva definirsi in un girone all’italiana formato dalle quattro vincitrici dei gironi iniziali: Spagna, Svezia, Brasile e Uruguay. Dopo che ogni squadra ebbe disputato due partite con una sola partita da giuocare, la classifica era (la vittoria assegnava 2 punti, NdA): Brasile 4 punti, Uruguay 3, Spagna 1 e Svezia 0. Solo Brasile e Uruguay potevano perciò ancora vincere il Mondiale e proprio Brasile-Uruguay fu la partita che si disputò il 16 luglio 1950: di fatto la finale. Ma non proprio: perché mentre l’Uruguay era obbligato a vincere, al Brasile era sufficiente anche un pareggio per laurearsi campione (proprio come contro di noi nell’82 per il passaggio alla semifinale…).

Obdulio Varela

Obdulio Varela

Prima della partita, i brasiliani si sentivano già comodamente campioni. Il giorno precedente il giornale O Mundo titolava sotto una gran foto della squadra verde-oro: “Questi sono i campioni del mondo”. Si erano già preparati i discorsi delle autorità per celebrare la vittoria brasiliana, lo speaker dello stadio si riferì alla squadra brasiliana come a quella campione e gli stessi dirigenti uruguayani scesi nello spogliatoio chiesero ai loro giuocatori di non farsi umiliare, dando per scontata la sconfitta. Ma il capitano della celeste (così è detta la nazionale uruguayana, NdA), Obdulio Varela, detto el negro jefe (il capo nero, perché figlio di un bianco e una mulatta) non la pensava così e, salendo i gradini verso il campo, disse ai suoi compagni: “Ancora non m’è capitato di perdere una partita prima di giuocarla: non guardate gli spalti, bensì il campo: e lì loro sono undici, esattamente come noi”.

Il fatto è che è difficile rimanere impassibili di fronte a 200.000 spettatori che fanno il tifo per i tuoi avversari, che sono decisamente superiori e ai quali è sufficiente un pareggio per vincere il Mondiale. Il Brasile era in effetti più forte, tanto che lo stesso jefe ammetterà: “Se giuocassimo altre cento volte quella partita, la perderemmo cento volte”… eppure quel giorno… In ogni caso anche l’Uruguay era una squadra di tutto rispetto nella quale si distingueva Pepe Schiaffino, oriundo italiano, che giuocò nel Milan ed è tuttora considerato uno dei più forti giuocatori della storia.

La partita cominciò e il Brasile giuocò “alla brasiliana”: sempre all’attacco, costruendo decine di occasioni da goal. L’Uruguay aspettava, in attesa di un errore. Il primo tempo si chiuse zero a zero, tra i canti di gioia del pubblico. Al ritorno dagli spogliatoi, al secondo minuto della ripresa il Brasile segnò, e a quel punto ogni residuo dubbio si dissolse: come da logica, il Brasile avrebbe vinto i Mondiali e i direttori dei giornali diedero ordine di stampare le prime pagine con titoloni a nove colonne: “Brasile campione!”.

Subito dopo il goal, el negro jefe si chinò a prendere il pallone nella propria porta, se lo mise sotto braccio e andò a chiedere spiegazioni riguardo ad un inesistente fuorigiuoco prima al guardialinee e poi all’arbitro, arrivando anche a chiedere l’intervento di un interprete, essendo la terna arbitrale inglese. Camminava a testa alta nel mezzo del Maracanà di fronte a migliaia di tifosi avversari, con il pallone sottobraccio. In realtà il suo obiettivo era che la partita non ricominciasse subito, far placare l’inferno dei 200.000, far rifiatare i suoi compagni e invece innervosire i brasiliani per quella prolungata e ingiustificata pausa. Tutti dovettero attendere qualche minuto perché Obdulio Varela, el negro jefe, restituisse il pallone e decidesse che si poteva ricominciare a giuocare…

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