Mercati e sovranità nazionale

Pubblicato il 11 Agosto 2012 alle 19:49 Autore: Giacomo Bottos

Un altro aspetto della questione consiste nel fatto che i mercati, una volta instaurati dallo Stato tendono ad autonomizzarsi da esso e a costituirsi come un potere autonomo, al quale gli stessi stati finiscono per essere sottoposti. Questo avvenne nella sua forma paradigmatica nel corso dell’Ottocento. All’epoca il gold standard costituiva un meccanismo automatico internazionale di aggiustamento. Se uno stato si trovava in una situazione di deficit delle partite correnti, l’oro defluiva dal paese. In questo modo la base monetaria si restringeva, i prezzi e i salari si abbassavano e di conseguenza le merci nazionali recuperavano competitività sui mercati internazionali e il deficit si riequilibrava. Il problema è che il processo di aggiustamento poteva essere spesso violento e disordinato e passare per un drammatico aumento della disoccupazione e dei fallimenti. Ad ogni modo fu nel corso dell’Ottocento che si formò la finanza internazionale nella sua forma classica, come un insieme di entità sovranazionali che finanziava gli Stati oltre che le grandi imprese imprenditoriali. Certo, fin dall’inizio dell’età moderna esistevano grandi banchieri che effettuavano prestiti ai sovrani, oltre a operare sul mercato dei cambi, ma nell’Ottocento il sistema raggiunse una perfezione e una ramificazione mai raggiunte prima. La rete di influenza su cui esso poteva contare gli permetteva di incidere in larga misura sugli stessi eventi e sulle scelte politiche, dato che dalle loro decisioni di investimento dipendeva il futuro dei governanti e delle nazioni.

Questo grande sistema entrò in crisi prima con la guerra mondiale e poi, in maniera drammatica con la crisi del ’29. Il sistema, che per un certo tempo aveva generato effettivamente equilibrio, produceva ora instabilità. Fu la crisi del ’29 l’occasione per quella rivoluzione culturale costituita della riflessione di Keynes e dalla ripresa in grande stile dell’intervento pubblico in economia. La mano pubblica, che era stata soppiantata dalla mano invisibile dello stato, riprese per un cinquantennio il centro della scena. In Italia questo si concretizzò nella grande parabola dell’IRI che, va ricordato, prima dei noti abusi della fase terminale, fu uno dei principali artefici dell’industrializzazione del secondo dopoguerra e del miracolo italiano.

Al centro di questo mutamento di paradigma c’era l’importante idea che l’investimento dovesse tenere in considerazione anche parametri di rilevanza sociale, come l’occupazione, e che non necessariamente questo fosse in contrasto con i risultati economici anzi, in determinate circostanze li potesse addirittura migliorare (i trent’anni del secondo dopoguerra sono stati il più straordinario e stabile periodo di crescita economica della storia dell’umanità).

Naturalmente questo richiedeva una relativa limitazione della totale libertà d’azione dei mercati finanziari. La separazione tra banche di deposito e banche di investimento, i controlli sui movimenti dei capitali, la disponibilità delle leve della politica monetaria alle scelte di politica economica erano i corollari necessari del compromesso keynesiano. Compromesso che venne progressivamente smantellato negli anni ’70, in seguito a eventi come lo shock petrolifero, il venir meno del paradigma di Bretton Woods, la deregolamentazione dei mercati finanziari. Ancora una volta, bisogna nella situazione attuale liberarsi dall’idea che ci troviamo in preda a forze naturali e inevitabili. La situazione attuale è il risultato di scelte politiche effettuate in passato, che non sono irrevocabili. Ed è su questo piano che si gioca la vera partita, quella determinante. Il resto sono in buona parte specchietti per le allodole.

L'autore: Giacomo Bottos

Nato a Venezia, è dottorando in filosofia a Pisa, presso la Scuola Normale Superiore. Altri articoli dell’autore sono disponibili su: http://tempiinteressanti.com Pagina FB: http://www.facebook.com/TempiInteressanti
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