Schwazer, la FIDAL e i media

Pubblicato il 11 Agosto 2012 alle 12:12 Autore: Matteo Patané
schwazer

Schwazer svela un rapporto conflittuale con la marcia, ha rivelato di essere arrivato a odiare il suo sport e di approcciarsi con difficoltà agli allenamenti, dimostrando quasi il passaggio in un periodo di depressione, sebbene dal punto di vista sportivo i risultati da Pechino in poi non siano stati poi così negativi.
Al tempo stesso ha mostrato una profonda fragilità psicologica in termini di resistenza alla pressione dei media, una pressione che se da un lato si fa sentire in momenti piuttosto rari solo in occasione degli appuntamenti più importanti, è dall’altro molto intensa in simili momenti, e soprattutto senza alcuna pietà in caso di fallimento – inteso come mancato piazzamento – in tali appuntamenti. Fallimento inteso sia come l’arrivare alle gare importanti in pessimo stato di forma, ma anche il ritiro per infortuni, malattie, i mille contrattempi che possono mandare a monte una gara e che il grande pubblico difficilmente potrebbe capire, preso com’è dalla crudele semplificazione del risultato e della medaglia. Molto emblematico il passaggio, a questo proposito, in cui una giornalista afferma che un atleta con la carriera di Schwazer avrebbe anche potuto arrivare decimo a Londra, ed il marciatore, molto lucidamente, risponde, “Lei crede?”
L’esempio del flop del nuoto italiano e della pioggia di critiche piovuta soprattutto su Federica Pellegrini è in effetti il simbolo del cinismo con cui l’informazione italiana tratta i cosiddetti sport minori, dimenticati fino a mondiali, europei o olimpiadi… ma in quel momento la conquista della medaglia diventa l’obiettivo minimo, sotto al quale si parla di fallimento. Una situazione difficile da sopportare per chiunque, ed evidentemente per Schwazer più di altri.
Uno sport che è arrivato ad odiare ma nel quale aveva bisogno di eccellere: quale strada migliore a questo punto del doping? Schwazer, sollecitato dai giornalisti, ha anche parlato di come è arrivato a contattare Ferrari a causa dell’assenza di alternative valide. Un duro colpo per la federazione di atletica, tacciata di non avere allenatori degni di questo nome nella specialità in cui schiera il suo atleta di punta, che si accontenta di raccogliere quanto le società sportive, soprattutto militari, riescono a seminare, che lascia agli atleti l’onere di trovarsi allenatori, preparatori e medici, che ha dimostrato di essere completamente ignara della condizione psicofisica dell’atleta su cui più di ogni altro puntava in questo appuntamento olimpico.

Alex Schwazer è il primo e principale responsabile della sua scelta di darsi al doping, e per questa sua decisione dovrà pagare le giuste sanzioni in termini di giustizia sportiva e di rapporto con il pubblico. Tuttavia limitarsi a questo ragionamento significa guardare una sola faccia della medaglia, e bisogna invece esaminare ogni aspetto della questione: quanto è stato lasciato solo Schwazer? In che modo l’Italia ha curato e difeso questo atleta – chiamiamolo anche investimento in termini di popolarità e risultati – nel momento del bisogno?
La domanda di fondo è la seguente: se Alex Schwazer fosse stato seguito da un team adeguato, si sarebbe rivolto al doping? Probabilmente no. Come il marciatore dovrà ora iniziare una nuova vita – possibilmente lontano dai riflettori – la federazione di atletica ha il preciso dovere di prendere atto delle proprie gravissime mancanze e adoperarsi affinché, tramite strutture e personale adeguato, casi del genere non possano ripetersi.
Né si può dire che i media siano esenti da responsabilità: essere atleti significa combattere tensioni e pressioni intensissime sui campi di gara, in special modo per quegli sport che hanno già poca visibilità e per i quali la gratificazione del pubblico si manifesta una volta all’anno o poco più; aggiungere a tutto questo vere e proprie campagne denigratorie in occasione di prestazioni al di sotto delle aspettative, oppure imbastire sequenze di articoli sull'”ultima speranza” dell’atletica caricando ulteriormente di aspettative persone già provate, forse farà vendere di più, ma rischia di distruggere una psiche di per sé fragile. E in una nazione in cui i bravi sportivi sono luminose eccezioni all’interno di un sistema inefficiente, non se ne sente proprio il bisogno.

L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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