La crisi in Danimarca e le politiche neoliberiste. Intervista a Bruno Amoroso (Università di Roskilde)

Pubblicato il 13 Settembre 2012 alle 12:23 Autore: Antonio Scafati
amoroso

Il governo guidato dalla laburista Helle Thorning-Schmidt ha recentemente annunciato di puntare a dimezzare il deficit pubblico, per passare dal 4% del 2012 all’1,9% entro l’anno prossimo. Un traguardo del genere è raggiungibile? E soprattutto: a che prezzo?

Questo è l’eco di quanto appena detto con due paradossi. La Danimarca non ha introdotto la moneta unica ed è esplicitamente dispensata dall’obbligo di aderirvi, insieme alla Gran Bretagna, ma ha fatto proprie le politiche neoliberiste europee – sia con il governo liberalconservatore sia con l’attuale governo socialdemocratico – e si è autoimposta un vincolo dei bilancio del 3% che, come altrove, in una situazione di crescente disoccupazione e disagio sociale contribuisce ad affossare il sistema economico e produttivo. Ne segue l’impegno a tagliare la spesa sociale con conseguenze negative anche sull’efficienza del sistema sociale e produttivo. Questa presa di comando del pensiero e del potere unico in Europa, del quale le politiche neoliberiste (in Danimarca), e l’euro e il neoliberismo altrove sono il prodotto, sta trasfigurando il volto del progetto europeo rendendolo insopportabile ai danesi e ai cittadini europei in generale. Ogni ritardo nell’abbandono dell’euro – con il ritorno a un sistema europeo di cambi concertati compatibili con la specificità delle varie economie e sistemi sociali – rischia di far naufragare insieme al sistema monetario lo stesso progetto europeo.

la crisi in danimarca

La Danimarca ha sempre avuto una bassa disoccupazione. Gli anni della crisi hanno però fatto lievitare il numero dei senza lavoro, oggi al 6,3%. Cosa si è inceppato nel sistema danese? Perché è così difficile far scendere il numero dei disoccupati?

Il numero dei disoccupati, come è dimostrabile dal caso danese, non dipende dalle congiunture economiche e dalle crisi, ma dalle politiche attuate per mantenere l’obiettivo dell’occupazione come forma prima di inserimento sociale e di ripartizione equa del lavoro e della ricchezza prodotta. Superata la fase del dopoguerra, quando la socialdemocrazia era attenta a questo obiettivo e considerava le politiche industriali uno strumento importante per il rinnovamento dei sistemi produttivi, ci si è adagiati sulle “scelte” del mercato, lasciandosi guidare da questo su sentieri di spinta alle esportazioni verso i mercati ricchi dell’Europa e degli Stati Uniti, inconsapevoli del fatto che questo generava insieme alla ricchezza una forte dipendenza da un modello economico che oggi si sta rivelando un boomerang. Inoltre, l’affermarsi di questo modello economico competitivo e orientato verso i mercati “ricchi”, ha determinato anche il nascere di aristocrazie finanziarie e industriali – oltreché politiche – che ricavano altrove i propri redditi e potere e che ha dato vita ad un nuovo ceto politico europeo sempre più imbevuto dei principi e delle ideologie della globalizzazione. Si va pertanto determinando una scissione tra politica e cittadini, con reazioni verso i partiti che trovano espressione nella nascita di nuove forme di organizzazione e protesta popolare. 

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L'autore: Antonio Scafati

Antonio Scafati è nato a Roma nel 1984. Dopo la gavetta presso alcune testate locali è approdato alla redazione Tg di RomaUno tv, la più importante emittente televisiva privata del Lazio, dove è rimasto per due anni e mezzo. Si è occupato per anni di paesi scandinavi: ha firmato articoli su diverse testate tra cui Area, L’Occidentale, Lettera43. È autore di “Rugby per non frequentanti”, guida multimediale edita da Il Menocchio. Ha coordinato la redazione Esteri di TermometroPolitico fino al dicembre 2014. Follow @antonio_scafati
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