Breve storia del cinema italiano: i fasti del passato la crisi del presente

Pubblicato il 8 Marzo 2013 alle 11:38 Autore: L Undici

Cinecittà per un poco rappresentò lo specchio della gloria fascista, quando a lavorare erano, oltre alle star già citate, i cari al regime Leonardo Cortese, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (gli ultimi due, legati nella vita, finirono fucilati dai partigiani). In seguito negli studi si risentì del clima di guerra, la produzione si spostò al nord. La cupezza di quei momenti ebbe il merito di stimolare la creatività degli astri nascenti di Rossellini e De Sica, manifesti viventi del neorealismo, che diverrà una corrente letteraria, all’inverso del solito.

I capolavori italiani furono molti e, con l’avvento del neorealismo, il nostro paese ebbe il suo momento di apoteosi, seppure non apprezzato da tutti. De Sica trionfò con titoli come:
-“I bambini ci guardano”  (1943), una sorta di Anna Karenina in salsa italiana. La protagonista ha una relazione e rompe il matrimonio, sotto lo sguardo sempre più sgomento del figlio, fino al suicidio del marito .
-“Sciuscià” (1947): protagonista è un giovanissimo Franco Interlenghi. Storia drammatica di due lustrascarpe che finiscono in carcere. Abominio e violenze.
“Ladri di Biciclette” (1949): interpretato da attori non professionisti (metodo caro a Vittorio). La dannazione degli umili. Un operaio non può lavorare perché derubato della bicicletta, che nessuno lo aiuterà a ritrovare; ma quando, disperato, tenterà di sottrarne una a sua volta, sarà subito scoperto e mortificato davanti al figlio. Pellicola “on the road”, dove la discesa agli inferi si snoda attraverso scene urbane di una Roma dolce e solatìa, ma crudele con gli oppressi.

Queste ultime due opere ottengono i primi due Oscar come miglior film straniero, ma altresì incassano le prime critiche, accusate di screditare l’immagine della nazione, che stava cercando di uscire a testa alta dalla guerra.

Una scena da “Miracolo a Milano”

“Miracolo a Milano” (1950):  più surreale e fantasy; protagonista un giovane orfano pieno di ideali e buoni sentimenti, che grazie ad essi farà volare la gente in piazza del Duomo (una scena che, a quanto pare, avrebbe ispirato Steven Speilberg per “E.T.”).

“Umberto D.” (1952): Sergio Tofano interpreta un pensionato al minimo, sotto la soglia di sopravvivenza. La sua unica compagnia è un cagnolino; riscuote simpatie tra i piccoli, mentre gli adulti gli infliggono malvagità a non finire.

L’Italia non ne usciva splendente e , come accennato, molti se ne adontarono. Era giusta l’accusa di screditare il nostro popolo? Ricordiamo che vi si associò anche la promessa politica di allora, Giulio Andreotti. Certamente l’etichetta di Italia in bilico tra “‘O sole mio” e disperazione è rimasta sempre un po’ attaccata al paese; e all’estero venivano richieste a gran voce sceneggiature all’italiana, dove non mancassero baracche , straccioni, lacrime e, in seguito, un po’ di malavita.

Il filone prosperò anche con prodotti meno titolati, ma dagli incassi stratosferici, come quelli interpretati dal rinnovato Nazzari con la maggiorata d’origine greca Yvonne Sanson: “Catene”, “Figli di nessuno”, “Tormento”. La regia era di Raffaello Matarazzo, che virava più sugli aspetti sentimentali delle angosce comuni, tra ragazze madri abbandonate, matrigne arcigne e sadiche, orgogli e pregiudizi al ragù. Nè mancavano i raffinati drammi di Visconti (Senso), a rialzare un po’ lo stile, portandolo dai sobborghi a raffinate ambientazioni d’epoca o rarefatte nebbie padane.

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