Breve storia del cinema italiano: i fasti del passato la crisi del presente

Pubblicato il 8 Marzo 2013 alle 11:38 Autore: L Undici

Gli anni cinquanta rimangono oggettivamente il decennio d’oro della nostra produzione meglio riuscita: la commedia all’italiana , comica senza trascurare qualche accenno sociale, da quella più leggera di Totò fino all’altra, affiancata da drammi popolari di Pietro Germi, regista e attore genovese che rese note all’estero le nostre ipocrisie (“Divorzio all’italiana” “Sedotta e abbandonata”).

Tomas Milian e Bombolo

Il resto della nostra storia cinematografica è fatta di tutto un po’: dall’impegno ideologico (Scola) al poliziottesco di Maurizio Merli e Tomas Milian (creduto cubano, ma forse romanissimo). Per parecchio si viaggiò a gonfie vele, attirando investimenti e divi stranieri che si riciclavano o avrebbero trovato il successo prima a Roma che altrove (uno per tutti, Clint Eastwood); e grazie alle sapienti taroccate ( citazioni colte) dei generi americani, Sergio Leone, (figlio di Roberto Roberti, un pioniere del cinema italiano) dapprima criticato, riuscì dove forse, dopo, è arrivato solo Tinto Brass (e non ci entusiasma): essere conosciuto dai poli all’equatore. E scusate se è poco.

Tutta questa epopea si riassume nella definizione di “Hollywood sul Tevere” e rese noti oltre confine registi, sceneggiatori, divi: dalle rivali Loren/Lollobrigida, ad Anna Magnani (Oscar per “La Rosa Tatuata” negli USA), dal presuntuoso latin lover Rossano Brazzi, all’indiscusso Marcello Mastroianni o il suo modello in seconda Sergio Fantoni, ai “colonnelli” Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi, a Claudia Cardinale, alla ex-modella Elsa Martinelli e le splendide Virna Lisi e Rosanna Schiaffino. Ci fermiamo, per non far torto a nessuno.

Di fatto, negli anni settanta, iniziò la decadenza: vuoi per la concorrenza delle neonate televisioni private, vuoi per l’oggettiva crisi di idee o per le ambasce sociali del momento. Senza affermare che non esistano lavori degni di nota (da “Il Giardino dei Finzi Contini”, a “C’eravamo tanto amati”), si filò dritti verso il pecoreccio o il barzellettistico. Così è che ci siamo attirati critiche meritate.

Qualche anno fa Quentin Tarantino espresse giudizi negativi sul cinema italiano di oggi e rimpianto per i fasti del passato. Come prevedibile, si è assistito alla levata di scudi dei cineasti nostrani e, in particolare, di una accigliata Lina Wertmuller. La grande signora del cinema italiano è comprensibilmente irritata, ma in fondo…c’è del vero. Inoltre, da quando è intervenuta la tecnologia, gli USA hanno spiccato il volo e non c’è stata più gara. Va pur detto che la televisione ha fagocitato i generi; tutte le pulsioni che vogliamo vedere proiettate, ci vengono servite dal piccolo schermo. E che i grandi, tra cui la stessa Wertmuller, hanno rallentato o cessato l’attività.

Infine, senza voler sottovalutare chi opera nel settore con competenza e buona volontà, da spettatore si deve pur ammettere che il cinema italiano è in stallo. Non si potrà pensare di tenerne alto il vessillo con le nuove procaci dive, i bei ragazzini o, viceversa, gli autori di nicchia. E’ finita un’epoca e oggi si procede a tentativi, con la concorrenza delle cinematografie di paesi lontani, India in testa. Il tempo dei divismi folli è finito. Le nuove star non mancano di pazzia, ma non fanno più sognare: le trovi su Internet, in qualche immagine di quando non erano ancora famosi e commettevano sciocchezze, prima di restaurarsi da capo a piedi e passa un po’ il carisma. Quentin di certo non aveva intenzione di offendere. Anzi, da oriundo, forse voleva addirittura elogiare la nostra tradizione e spingerci a rinnovarla.

Gabriele Salvatores (Napoli, 30 luglio 1950)

Concludiamo dunque con l’ultima riflessione tratta da Columbus II: “Sia come sia, oggi ci troviamo a riflettere mestamente su che fine abbia fatto quel cinema che ci ha resi celebri nel mondo, visto che vengono richiesti all’estero quasi solo alcuni tecnici dei mestieri, direttori della fotografia, costumiste. L’outsider Federico Fellini, visionario e non inquadrabile in filoni (altro pluridecorato da Oscar), Risi, Monicelli, Bolognini…sono figure che mancano. Bravi professionisti schierati come Avati, Moretti, Salvatores, muovono le acque, scuotono le coscienze, ma non i botteghini. Successi che hanno conciliato qualità e incassi ci hanno allietato, come alcune opere di Carlo Verdone (cognato di Christian De Sica), ora però sessantenne e in difficoltà a insaccarsi in ruoli che ne vorrebbero almeno venti di meno e con lui i bravi professionisti che spesso lo affiancano. Inutile fare elenchi, arriveremmo a Moccia e ai lucchetti di ‘Ho voglia di te’. E molti di noi non hanno proprio i fondamentali né l’età giusta per capirli.

Ci chiediamo invece, forse invidiosi, bonariamente indignati, se proprio Christian de Sica dovesse insistere in quel suo tipo di carriera. Ha ricevuto in dote la somiglianza con l’amato padre, la sua simpatia e anche un suo proprio talento. Gli piacciono i denari, e non lo biasimiamo per questo. Però non è il massimo portare un tal cognome e passare la vita con Boldi o un Ghini ribassato, a sparare parolacce per far ridere gli undicenni.

Così, finisce che anche i pochi bravi restano oscurati. E peggio per chi non ha coraggio, come l’Italia di oggi, nel cinema come nell’arte, nella politica: in tutto. La mancanza di coraggio si paga.

 

L'autore: L Undici

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