Nucleare: il problema delle scorie radioattive (II)
L’allontanamento delle scorie radioattive dalla biosfera può essere fatto in due direzioni: nello spazio, magari direttamente nel Sole, o verso l’interno della Terra. L’invio di un razzo verso il Sole nasconde tuttavia due gravi problematiche: la prima è naturalmente il costo. Il vettore Ariane 5, dell’ESA, ha un costo per lancio di circa 120 milioni di dollari, circa 100 milioni di euro, e può trasportare un carico netto inferiore alle 10 tonnellate – nella versione più capiente del razzo – in orbita geostazionaria. Non è irragionevole pensare che per arrivare fino al Sole, o ad una posizione nello spazio in cui scaricare le scorie in maniera tale che la forza di gravità le porti al Sole, la quantità di carico debba essere ulteriormente ridotta. Ipotizzando per semplicità di calcolo 6,5 tonnellate, questo significa 1.000 lanci all’anno (100 miliardi di euro) per smaltire le scorie prodotte nell’anno stesso, e altri 30.000 lanci circa (3.000 miliardi di euro) per azzerare il residuo pregresso.
Ovviamente una soluzione del genere non è praticabile dal punto di vista economico, e vi sono anche ragionevoli dubbi sulla sicurezza. L’Ariane 5, come si legge nelle specifiche tecniche del vettore, ha una percentuale di affidabilità del 98% circa. Questo significa che con mille lanci all’anno ragionevolmente una ventina andranno male, liberando mediamente 130 tonnellate di scorie altamente radioattive nell’atmosfera ogni anno. Ciò equivarrebbe alla liberazione di bombe sporche come nessuna organizzazione terroristica potrebbe mai fare, e già dopo il terzo lancio fallito lo stesso patrimonio genetico dell’umanità si potrebbe considerare irrimediabilmente compromesso.
Seppellire le scorie radioattive nelle profondità della Terra porta immediatamente a chiedersi in quale punto. Lo spessore della crosta terrestre spazia dai 5 km della crosta oceanica ai 35 di quella continentale, e la crosta è una barriera che deve essere superata se si vogliono evitare contatti con la biosfera. L’ipotesi di utilizzare i vulcani deve essere naturalmente scartata a priori: in primo luogo il calore non ha impatti sulla radioattività degli elementi, quindi un’eventuale immersione nel magma non risolverebbe il problema; inoltre i vulcani, come è noto, sono condotti verso la superficie della Terra, non verso l’interno. Vulcani ricolmi di scorie – e già pensare di riversare dentro i vulcani del globo oltre 6.500 tonnellate di materiale ogni anno rende facilmente comprensibile la scarsa praticabilità della soluzione – sarebbero a tutti gli effetti dei mortali cannoni puntati verso la biosfera, pronti ad eruttare materiale radioattivo in aggiunta alle normali deiezioni vulcaniche.
Gli unici, veri, punti di ingresso per le profondità della Terra sono le zone di subduzione, in cui una placca terrestre scivola al di sotto di un’altra fino ad immergersi nel mantello; l’esempio più conosciuto è probabilmente la costa occidentale del Sud America, con lo scontro tra la placca di Nazca e quella continentale sudamericana. Le operazioni da fare sarebbero tecnicamente molto complesse: le scorie sarebbero da sigillare nei pressi della zona di subduzione, ben al di sotto del livello del fondale marino, in contenitori sufficienti a isolarle dalla biosfera fino al raggiungimento del mantello terrestre. Oltre ai limiti tecnologici, vi è anche uno spauracchio naturale verso questa tipologia di soluzione: ai movimenti di subduzione di una placca corrisponde quasi sempre un’intensa attività vulcanica da parte della placca sovrastante, con la possibilità che parte del materiale di subduzione invece che finire nel mantello trovi una strada per la superficie. Il rischio che le scorie possano prendere questa strada è oggettivamente troppo alto per rendere anche questa strada realmente praticabile.
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