Meritocrazia: un concetto da valutare prima dell’uso

Pubblicato il 12 Luglio 2013 alle 09:04 Autore: Andrea Mariuzzo

Traducendo il tutto nella concreta realtà di tutti i livelli del sistema di formazione italiano, e riprendendo un po’ gli argomenti che avevo sviluppato mesi fa quando si pensava di risolvere qualcuno dei problemi delle scuole istituendo lo “studente dell’anno”, si può dire questo: tirando in ballo la meritocrazia come programma si cerca spesso di ammantare di novità un insieme di meccanismi che in realtà da noi funzionano fin troppo, in breve l’idea di demandare alle scuole il compito quasi esclusivo di verificare formalmente la preparazione degli studenti e di individuare quelli che riescono meglio nelle prove di selezione, in una sorta di scorciatoia che eluda il problema fondamentale, ovvero l’incapacità delle nostre istituzioni scolastiche di offrire a tutti la possibilità di sviluppare le proprie qualità e le proprie attitudini, a tutti i livelli, fino a scaricare sugli studenti che risultano più scadenti la “colpa” di non essere “meritevoli” di sostegno. Invece

il problema – dicevo a suo tempo – non è individuare e premiare lo studente migliore. Il problema è offrire a tutti, soprattutto a chi già riesce bene nei percorsi di studio ordinari, la possibilità di crescere e di sviluppare le proprie attitudini. In questo la scuola italiana è del tutto carente, e non solo per la scarsità di risorse. In generale, l’idea che gli studenti e anche molti docenti hanno della scuola è quella della cancelleria di un ufficio pubblico: io, studente, arrivo al compito e all’interrogazione, e dimostro quanto so, sulla base di un programma concordato che il professore ha precedentemente esposto. Come e perché io sappia quello che so e/o non sappia quello che non so è irrilevante, l’unica cosa che conta è che la scuola approvi il mio studio apponendo sulla mia preparazione un timbro, quello del voto. Quello che manca nella scuola non è tanto un sistema di individuazione e di sanzione di quanto qualcuno ha studiato (o meglio, laddove manca pure quello il caso è proprio disperato), ma la garanzia di un sistema di relazioni e di rapporti tra docenti e discenti che chiarisca ai ragazzi perché e come devono sapere queste cose, che cosa effettivamente possano farci, e che non ultimo si adegui per quanto possibile alle doti e alle peculiarità dei ragazzi offrendo a tutti l’accesso a un novero sempre più ampio e complesso di conoscenze, a prescindere dal punto di partenza.

In conclusione, come già mi è capitato di accennare analizzando le tare dell’ammissione a numero chiuso “all’italiana”, le procedure di selezione e di valutazione delle qualità e delle attitudini, in primo luogo, possono rappresentare un adeguato punto di arrivo, o meglio momenti di verifica in itinere di cicli di formazione nei quali non ci si limita a dividere gli studenti tra “buoni” e “cattivi”, ma si cerca di mettere a disposizione di ognuno strumenti di conoscenza e di crescita culturale idonei. In questi termini, perde qualunque significato l’idea (anch’essa molto comoda in tempi di crisi e di tagli) per cui la “selezione meritocratica” serva a individuare coloro che hanno capacità sufficienti da giustificare un investimento nella loro formazione, lasciando perdere gli altri perché “inadeguati”. Se in un sistema scolastico e accademico i percorsi “di eccellenza” (diciamo così per brevità) sono necessari per venire incontro a esigenze fondamentali per individui e comunità, essi non sono in nessun caso sufficienti, e non si può pensare al ruolo sociale del sistema scolastico e accademico di un paese sviluppato in termini di esclusione.

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Da questo punto di vista può essere interessante prendere in considerazione quella che proprio Abravanel, facendo proprio un sentire piuttosto diffuso, ha definito “la patria della meritocrazia”, ovvero gli USA, con il loro sistema accademico a ingresso selettivo in sedi differenziate in termini di qualità e funzioni. Si veda in particolare il volume di Jerome Karabel, che sotto l’evocativo titolo di The Chosen. The Hidden History of Admission And Exclusion at Harvard, Yale, And Princeton nasconde una approfondita analisi dei criteri di ammissione alle principali università della Ivy League e dei loro mutamenti nel corso degli ultimi 150 anni. In generale, l’autore mostra come tali criteri rappresentassero una sorta di terreno d’incontro e di trattativa degli interessi e delle volontà di un ampio numero di attori sociali e istituzionali: i docenti, che cercavano studenti più “facili” da formare e quindi già avanzati nella preparazione generale e provenienti da istituzioni scolastiche omogenee per programmi e di provata fama; i vertici amministrativi, che dalla carriera dei laureati migliori avrebbero cercato di distillare la reputazione della propria sede accademica; gli ex allievi, che dalla facilità con cui i loro figli possono entrare nell’ateneo spesso fanno dipendere il loro interessamento economico; le fondazioni pubbliche e private che si occupavano di finanziare a fondo perduto o con prestiti le rette, pronte a pagare somme più alte per atenei che garantissero la possibilità dei loro laureati di rendere l’investimento; le istituzioni politiche federali, che facevano dell’ampia rappresentatività nazionale del corpo studentesco un prerequisito per l’accesso a finanziamenti pubblici; le componenti etniche della società, generatrici con le loro frizioni prima di una chiusura verso le minoranze per le tendenze conservative dei “WASPs” e poi dell’esplosione della differenziazione a seguito delle politiche di affirmative action.

Questa disamina è importante anche oggi, dopo che per almeno trent’anni l’idea del “merito” individuale è diventata di gran lunga la parte più importante della complessa equazione sottesa alle ammissioni alla Ivy League, e altre tendenze di segno opposto si sono dissolte.

Infatti ciò, in primo luogo, si deve al fatto che alcune discriminazioni sociali pregresse sono state pazientemente rimesse in discussione e ammorbidite, se non cancellate: un numero sempre crescente di famiglie ha avuto a disposizione risorse da investire nell’istruzione dei figli, una buona preparazione nelle high schools anche pubbliche è diventata più accessibile, si sono imposti sistemi di valutazione delle attitudini intellettuali di base più “neutri” e meno legati a quello che Pierre Bourdieu definiva “sapere ereditato”, ecc.

In secondo luogo, la selettività in entrata dei grandi atenei di punta è resa sostenibile dall’interazione con la grande rete delle teaching universities statali e dei community colleges, che pur coltivando obiettivi diversi, come quelli legati alle necessità dell’istruzione superiore di medio livello per grandi numeri, non rappresentano affatto sedi di “serie B”. La mobilità accademica rende spesso questi atenei il punto di ricezione dei dottori di ricerca e dei giovani studiosi più brillanti preparati dalla Ivy League per una carriera accademica di alto livello. Attraverso reti di collaborazione intrastatali o federali, i loro docenti si offrono come “massa critica” per grandi progetti di ricerca e di diffusione della conoscenza. Investendo con progetti a lungo termine su percorsi di studio o concentrations specifici, atenei periferici possono raggiungere in quei campi livelli di qualità riconosciuta non dissimile da quelle delle sedi di più alto livello, rendendo le “graduatorie” tradizionali sempre aperte.

Infine, e in tutto questo discorso la cosa più importante, college relativamente oscuri spesso accolgono studenti che al momento dell’ammissione non hanno ancora maturato competenze e qualifiche sufficienti al “salto” nei grndi atenei di ricerca, ma che trovando l’ambiente giusto, accedendo a programmi integrativi adeguati e facendosi conoscere con attività extracurricolari di rilievo possono scoprire di non essere definitivamente tagliati fuori dalle sedi “che contano”, e rientrarci per i programmi di formazione culturale e professionale delle graduate schools che rappresentano un volano per le carriere più prestigiose. Richard Nixon, nato da umili origini, si laureò al piccolo ed economico liberal arts college vicino casa, prima di ottenere una ricca borsa di studio per la Law School della Duke University. Ma probabilmente, in questo caso specifico, se le maglie della “meritocrazia” fossero state più strette nell’esclusione precoce di aspiranti studenti di atenei prestigiosi, gli USA e il mondo non avrebbero perso granché…

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L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
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