D’equilibrismo si può anche morire

Pubblicato il 18 Gennaio 2011 alle 00:04 Autore: Livio Ricciardelli
D’equilibrismo si può anche morire

C’è poco di politico nella cronaca pseudo – parlamentare di questi giorni.

La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei Deputati sta analizzando la documentazione proveniente dalla Procura di Milano e deciderà sul da farsi. Il mondo politico sta a guardare tra un “siamo pronti alle urne” che si eleva all’unisono (ma con quanta sincerità?) da tutti gli schieramenti politici. Mentre, è la storia che ce lo ricorda, si sta aspettando probabilmente l’ennesimo voto segreto di una Giunta che in molti casi ha dimostrato di essere la cassa di risonanza del bieco corporativismo assolutorio, in voga per lo più negli ordini professionali e in quelle che qualche giornalista definirebbe come “caste”.

Volevo dunque concentrarmi, senza scadere nello scontato, sull’ultima direzione nazionale del Partito Democratico. Slittata da fine dicembre al 13 gennaio a causa del voto al Senato sul ddl Gelmini, la direzione ha rappresentato, a seconda dei punti di vista, un’occasione mancata o un punto fermo nel processo di costruzione dell’alternativa al centrodestra. Ha assunto anche una veste curiosa con un piccolo episodio che potenzialmente potrebbe in futuro collocarsi nell’ambita categoria delle “chicche” politiche.

Ma andiamo con ordine.

L’area del Pd più vicina a Veltroni, Fioroni e Gentiloni (leader del Movimento Democratico) chiedeva parole nette da parte del segretario soprattutto in merito alla politiche delle alleanze e alla paradigmatica vicenda dello stabilimento Fiat di Mirafiori, annunciando battaglia sulla piattaforma politica. Al tempo stesso, aspetto curioso quanto mai accademico della vicenda, la componente di Area Democratica, che fa capo al presidente dei deputati PD Dario Franceschini, sentendo le richiesta e i toni dei veltroniani non ha esitato a chiedere un voto – di fatto, una conta – sulla relazione del segretario.

Ora, già questo potrebbe spingerci ad un’analisi dell’estremismo relazionale che si registra in certi ambiti anche molto familiari. Come non discutere del resto delle maggiori simpatie che riscontrava, a Berlino Est, l’occidentale Cdu rispetto alla pur sempre occidentale Spd? Spesso infatti è storicamente provato nelle relazioni politiche che si tratta e si può trovare un compromesso molto più facilmente con dei veri e propri “nemici ideologici” rispetto a dei “compagni di scuola” con cui per forza di cose si è dovuto interrompere il cammino.

Insomma, la vicenda è molto poetica. Ma proseguiamo. In questa poeticità c’è anche, ovviamente, una ratio politica: un’area contesta politicamente la linea e un’altra area propone che la linea stessa si metta ai voti. Il problema viene dopo. Perché questa volta il “mezzo” trascende i canoni aristotelici, e non si coniuga bene con l’aggettivo “giusto” della formula “il giusto mezzo tra due estremi”.

Infatti il problema forse maggiore del Partito Democratico stavolta non risiede tanto in questi battibecchi. Nemmeno se si considera l’episodio, questo sì curioso, che ha visto l’ex sindaco di Belluno Gianclaudio Bressa rischiare di causare una scissione da un partito che ha già subito di tutto nella sua pur breve storia. Il problema sta drammaticamente proprio nella relazione di Bersani, cioè l’oggetto della discussione. Anche se messa ai voti (ed approvata a larga maggioranza).

Sia chiaro: questo non è un attacco a Bersani. Tanto è vero che il problema, a dirla tutta, non risiede soltanto nella singola relazione, ma assume connotati preoccupanti se la si accorpa anche alle sue conclusioni. Perché dalla relazione non è emersa in ogni caso una linea limpida e cristallina, in special modo sul tema delle alleanze. E su Mirafiori si registra una pluralità di posizioni trasversali quasi al pari delle discussioni sui temi etici in Parlamento.

Ma soprattutto perché, vista la piega presa dal dibattito e le dimissioni di Gentiloni e Fioroni dai rispetti incarichi nei dipartimenti, da parte del segretario si è avuta una variazione linguistica – che sa tanto di retromarcia – che a tratti ha rispolverato addirittura la vocazione maggioritaria, pur non mutando per nulla la linea (cosa di per sé lodevole, se ciò che oggi emerge del Pd può definirsi come la “fiera linea del segretario”). Piccoli concessioni e aggiustamenti. Magari per paura di una vera rottura.

Il problema forse sta tutto qua. Si ha paura della discussione vera, anche del voto che non è un’eresia e che può e deve starci. Ma deve anche esserci qualcosa da votare. E quindi non basta dire che giustamente si deve rispettare l’esito del referendum di Mirafiori. E nemmeno che bisogna costruire un campo, un’alleanza per il futuro oltre-Berlusconi.

Cioè, lo si può dire. Ma poi bisogna passare concretamente ai fatti. Anche, perché no, scontentando qualcuno in casa propria.

L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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