Italiani, belgi o… semplicemente europei?
Stando insieme si studia, si lavora, ma ci si ritaglia pure un angolo per divertirsi e sentirsi a casa, annullando i chilometri di distanza.
C’è scritto «Benvenuti in Italia» sugli striscioni all’interno del Circolo sardo in Belgio “SU-NU Raghe” di Mons. È scritto in italiano ma anche in francese, specie per le nuove generazioni, che si sentono italiane anche se la lingua d’origine non la parlano più.
«Molti italiani ora sono consiglieri comunali, hanno imprese – racconta il presidente Ottavio Soddu, emigrato anch’egli negli anni ’70 – l’integrazione qui si è fatta bene». Un’integrazione costruita con il lavoro, la dignità e l’equilibrio tra l’orgoglio delle origini e il rispetto per gli usi del Paese ospitante.
Fare ciò non è stato facile: specie all’inizio, tanti hanno conosciuto l’amarezza della discriminazione. «Non potevamo giocare coi bambini belgi, eravamo divisi a scuola» ricorda a Laeken Luisa Bongiovanni, figlia di genitori italiani: nella sua memoria è impresso un cartello doloroso, «Vietato l’ingresso ad animali e italiani», simile a quelli contro gli ebrei al tempo delle leggi razziali.
I pregiudizi erano entrati nella cultura popolare, proprio come accade oggi altrove: «Negli anni ’70 una canzone razzista, La Motuelle, diceva che gli Italiani venivano in Belgio per approfittare dello stato sociale e non volevano lavorare» spiega Anne Morelli, esperta in immigrazione.
Col tempo, per fortuna, le cose sono cambiate, gli italiani hanno saputo lasciare tracce in vari ambiti (dall’architettura alle lotte sindacali): oggi persino il premier belga, Elio Di Rupo, ha origini italiane. L’appartenenza, però, è un tasto delicato: «Dopo quarant’anni – riconosce la Butera – bisogna decidere da che parte stare, senza vivere sempre di nostalgie e rimpianti». Da qui l’interrogativo condensato nel titolo: c’è chi si sente italiano, chi belga, chi si riconosce in entrambe le categorie.
«Alcune delle persone che abbiamo incontrato sono ancora davvero molto attaccate al nostro paese, nonostante siano passati tantissimi anni, o magari siano nati in Belgio e conoscano poco o nulla l’italiano – spiegano le autrici del documentario – allo stesso tempo, però, si sentono anche belgi oppure non sanno come definirsi perché il dramma dell’identità è grande».
I flussi migratori, nel frattempo, non si sono fermati: i giovani hanno ripreso a viaggiare in cerca di un lavoro o di uno stipendio degno di questo nome, stavolta legato soprattutto a lavori intellettuali. Loro parlano varie lingue, hanno studi alle spalle, ma partono per trovare il merito che in Italia è ignorato o vilipeso: tengono al loro paese, potendo ci tornerebbero volentieri, ma all’occorrenza hanno la valigia pronta e di paesi ne hanno incrociati diversi.
«Alla fine di un percorso come il nostro – concludono le giornaliste – viene davvero da chiedersi se non sia più semplice definirci direttamente europei. A pensarci bene siamo tutti migranti: non a caso, il video si chiude con Lampedusa dei Sud Sound System, per dire che anche noi italiani, che per le cronache siamo soprattutto un popolo che accoglie chi arriva da altri Paesi, siamo migranti».