Siria, il ridicolo effluvio di una guerra evitabile

Pubblicato il 8 Settembre 2013 alle 15:18 Autore: Ilenia Buioni

Gli interventi umanitari: sul filo spinato della (il)legalità

Il Ministro degli Esteri E. Bonino da giorni ipotizza un deferimento della crisi siriana all’attenzione della Corte Penale Internazionale, che – sul fondamento dello Statuto di Roma – annovera tra i crimini contro l’umanità l’uso di armi chimiche connotato da sistematicità e consapevolezza contro civili. Ipotesi peraltro  profilata dal Cancelliere tedesco A. Merkel, che solo nelle ultime ore ha acconsentito a firmare il documento degli undici membri del G20 per una risposta internazionale “chiara e forte” contro l’impiego di armi di distruzione di massa.

Coscienti dell’attuale erosione dell’opzione giuridica, a maggior ragione appare opportuno riflettere sulla legalità di qualsiasi intervento militare in Siria, ai sensi delle norme del diritto internazionale che regolano – o meglio vietano, come finalmente sarebbe il caso di dire – l’uso della forza. L’Art. 2 della Carta delle Nazioni Unite recita che: “I membri (delle Nazioni Unite) devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia e dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Non meraviglia come l’unico escamotage che offrirebbe uno scudo legalitario ad un’operazione militare contro al-Assad potrebbe ravvisarsi esclusivamente nell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: circostanza quanto mai remota, stante il veto opposto dalla Russia e dalla Cina. Ergo: qualsiasi ricorso arbitrario alla forza non potrebbe scivolare impunemente tra le maglie del diritto, sebbene l’impiego di armi chimiche sia una condotta di per sé incriminata dallo Statuto istitutivo della Corte Penale de L’Aja.

Nel corso del vertice informale di Vilnius, i colloqui di Lady Ashton con i capi della diplomazia dei ventotto  Paesi dell’UE  si sono focalizzati sulle divisioni strutturali emerse a seguito del G20 di San Pietroburgo: al Segretario di Stato USA J. Kerry la missione di esortare l’Europa ad un intervento contro Damasco. La prudenza che accomuna la Spagna e la Gran Bretagna ha suggerito anche al Premier Letta di sottoscrivere la dichiarazione di sostegno verso la politica statunitense, pur  rimarcando la posizione non interventista dell’Italia in assenza di un mandato della Nazioni Unite.

 

Al di là della politica, l’esigenza di giustizia

Non è chiaro perché le indagini internazionali non si curino delle violazioni del diritto umanitario in Siria: un dubbio che diventa assillante, se solo si riflette sulle analogie che accomunano il Paese mediorientale alle vicissitudini della Libia. Si tratta di due Stati che non hanno ratificato lo Statuto della Corte Penale Internazionale, ma nel secondo caso è stata sollecitata l’attenzione della Corte de L’Aja, quasi vi fosse la tendenza ad una disparità di tutela dei diritti fondamentali degli esseri umani.

Prevale un senso di smarrimento di fronte alla consuetudine che offre una corsia preferenziale a sottili ed impercettibili ragioni politiche, a scapito di più attente valutazioni giuridiche. Si può agevolmente intuire che se si aprisse un procedimento a carico di al-Assad, il Presidente siriano non sceglierebbe certo di arrendersi spontaneamente. Un’eventualità, quest’ultima, che oltreoceano non è affatto minimizzata.

Si abbia riguardo al fatto che la Corte Penale Internazionale è sorta da un trattato multilaterale, spontaneamente ratificato finora da centoventuno Stati e accolto da altri che  (ne è emblema la Costa d’Avorio) – pur non essendo Stati parte della Convenzione – ne hanno accettato la giurisdizione. Nessuna delle due alternative è idonea a vincolare la Siria, ma non si dimentichi la clausola dell’Art. 13 dello Statuto di Roma: formula che consentirebbe al Consiglio di Sicurezza di intervenire comunque, anche in caso di dissenso di Damasco. Un meccanismo precedentemente sperimentato per il Sudan e la Libia.

A Gennaio, una petizione firmata dai rappresentanti diplomatici di circa sessanta Stati chiedeva alle Nazioni Unite che il Tribunale de L’Aja fosse investito del compito di indagare sui crimini in Siria, ma il veto della Russia e – si badi – degli Stati Uniti paralizzava qualsiasi intento di indagine giudiziaria. È stata un’iniziativa politica audace, tanto più perché la Corte può intervenire – come si accennava – anche in assenza dell’unanimità dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, a condizione che questi non oppongano espressamente il veto. Per salvaguardare la credibilità della Corte – vera pietra angolare della giustizia penale internazionale – occorre comprendere che non c’è più tempo per le congetture, ma è bene scommettere, prima ancora che sulla giustizia, su una politica mondiale ultramoderata.

Luttine Ilenia Buioni