Monti, e le province?
Applicando le quattro semplici regole sopra esposte, è possibile in primo luogo ridurre le province italiane da 110 a 83, riportandole al valore più basso dal lontano 1926; sebbene si possa obiettare che rispetto a quel periodo la popolazione italiana è indubbiamente incrementata, è altrettanto innegabile che è aumentata la capacità e la velocità di fornire servizi, giustificando quindi il paragone.
Le regioni impattate dai cambiamenti sarebbero:
- Abruzzo: da quattro a tre province
- Basilicata: da due a una provincia
- Calabria: da cinque a tre province
- Campania: da cinque a quattro province
- Emilia Romagna: da nove a otto province
- Friuli Venezia Giulia: da quattro a due province
- Lazio: da cinque a quattro province
- Liguria: da quattro a due province
- Lombardia: da dodici a dieci province
- Marche: da cinque a quattro province
- Molise: da due a una provincia
- Piemonte: da otto a cinque province
- Sardegna: otto a quattro province
- Sicilia: da nove a sette province
- Toscana: da dieci a otto province
- Umbria: da due a una provincia
In tre casi (Basilicata, Molise e Umbria) si arriva ad avere una sola provincia, le cui funzionalità potrebbero essere assorbite dalla regione portando a 80 il numero complessivo degli enti.
Sia dal punto di vista geografico che da quello di vista politico la manovra di taglio è sufficientementebipartisan per evitare campanilismi; al contrario, è piuttosto chiaro che si tratta di una manovra in grado di unire la Casta contro di essa. Ma proprio per questa ragione, quando ancora l’utilità di Mario Monti per i partiti è elevata e la crisi è da combattere, una simile riforma sarebbe da attuare con urgenza. Maggiori saranno i ritardi, maggiore sarà l’opposizione che i partiti sapranno mettere in campo.
Se Monti vuole dare un vero segnale di discontinuità al Paese, questo è uno dei punti principali su cui battere, forse non così rilevante dal punto di vista finanziario, ma sicuramente vincente dal punto di vista dell’opinione pubblica.