Proteggere il lavoratore, non il posto di lavoro

Pubblicato il 4 Febbraio 2012 alle 21:59 Autore: Alessandro Siro Campi
Proteggere il lavoratore, non il posto di lavoro

Il discorso di Monti sul posto fisso ha scatenato un’infinità di commenti. L’articolo 18 non ha paralleli in nessun Paese europeo. L’idea che ciò che deve essere tutelato sia il posto di lavoro e non il lavoratore è una delle tante follie italiane, uno dei tanti diritti sulla carta che vien bello proclamare e difendere a parole mentre è di fatto negato al 34% dei lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato, al 100% dei lavoratori atipici e al 100% dei liberi professionisti. Ed è negato a tutti quando un’azienda fallisce o delocalizza. Come dice Irene Tinagli:

La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa.

Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri».

Oppure possiamo dire a questi giovani che, viste le turbolenze economiche attuali e con aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, sarà sempre più difficile avere un posto che duri tutta la vita. Che se continua così si ritroveranno in milioni a scannarsi per poche migliaia di posti che arriveranno quando saranno impoveriti e stremati. E possiamo quindi provare a rendere questo percorso meno logorante. Da un lato, cercando di stimolare le imprese ad assumere, allentando le incertezze più gravose (come quelle delle cause di lavoro per reintegro che durano anni), alleggerendo la burocrazia e provando a rilanciare un po’ di investimenti. Dall’altro lato creando per questi giovani lavoratori, col coinvolgimento di Stato e aziende, nuove reti di sicurezza che in caso di malattia, gravidanza o ricerca di nuovo lavoro, non li lascino soli con la promessa che «quando avranno il posto fisso sarà tutto diverso».

La prima strada è quella che abbiamo perseguito sino ad oggi. La seconda è quella che il governo Monti dice di voler intraprendere. Si può certamente discutere sui bei tempi che furono, e, più seriamente, sugli strumenti che verranno adottati e sul come implementarli. Ma non si può dire che cercare di riformare un mercato del lavoro e del welfare squilibrato come il nostro sia sbagliato. Perché l’obiettivo, almeno per come è stato presentato fino ad oggi da Monti e da Fornero, non è smantellare un sistema di tutele, ma ridisegnarle per fare in modo che milioni di persone che oggi hanno poco lavoro e zero protezioni, possano finalmente ritrovare un po’ di speranza. Non ci dimentichiamo che oggi, al di là dei due milioni e duecentoquarantamila disoccupati, più della metà dei lavoratori italiani non è protetta né dall’articolo 18 né, molto spesso, da forme di tutela assai più basilari: quattro milioni e centomila dipendenti di imprese con meno di 15 addetti, un milione e mezzo di collaboratori autonomi tipo cocopro, un milione e mezzo di interinali o con contratti a termine, mezzo milione di stagist, un milione di collaboratori domestici, e due milioni e mezzo di irregolari. Per non contare la marea di partite Iva che di fatto operano come lavoratori dipendenti. E’ chiaro che ridisegnare un sistema in questo senso chiama in causa tutti: le aziende – che non potranno più avere l’alibi di regole troppo rigide per andare a questuare sussidi allo Stato; i sindacati – che dovranno trovare un modo di fare lotta sindacale incentrato sulla persona, la sua formazione e crescita più che sul posto di lavoro; e infine lo Stato – che dovrà garantire formazione e servizi efficienti e vigilare sul funzionamento del mercato. Certamente questo ridisegno richiede estrema cura, per evitare gli errori e le distorsioni delle riforme passate. Ma proprio questa cura e questo concorso di forze sono necessarie per ridare a tante persone una serenità che un tempo veniva trovata da molti nel lavoro fisso ma che oggi ha bisogno di nuovi strumenti per essere raggiunta da tutti.

La sfida non è strillare per difendere un diritto di carta, ma costruire dei diritti veri. Perché come dice Briguglia:

Il posto fisso come unica opzione è stato abbandonato dal 1996. Questo vuol dire che ci sono praticamente i primi ”precari nativi” al lavoro. E anche chi è nato diciamo nel 1980, e oggi ha 32 anni e quindi lavora da tempo, fa cognitivamente parte della prima generazione di persone che non si pone il problema della “pretesa” di un posto fisso.

La frase di Monti non può essere rivolta ai giovani, che sono ben abituati a quello che ormai è per loro un “dato di natura”, ma alle generazioni precedenti, che sono ancora cognitivamente intrappolate in un divide tra dentro e fuori che peraltro fa il loro gioco. La sfida è a loro.

Perché alla mancanza di posto fisso i giovani sono abituati, ma non possono abituarsi alle banche che danno il mutuo solo a chi ha il posto fisso, a stipendi che non tengono conto della brevità dei contratti (più un contratto è breve e più lo stipendio dovrebbe invece essere alto), a stage gratuiti e senza sbocco con cui le imprese si approvvigionano di lavoro a costo zero, a periodi di disoccupazione senza aiuti tra un contratto breve e un altro.

Probabilmente Monti intendeva questo, precisando ”purché in condizioni accettabili”, ma allora deve fare qualcosa di incisivo e in fretta. La sfida è tutta qui e non ha nulla di monotono.

E non tiriamo fuori che senza l’articolo 18 come è ora i lavoratori sarebbero più ricattabili. Non esiste categoria più ricattata dei giovani a cui si promette (a volte mentendo) un posto fisso in cambio di un lunghissimo e umiliante periodo di schiavismo:

Il mito del posto fisso, preferibilmente statale, è una di quelle chimere lascito della nostra sciagurata prima Repubblica, uno dei termini di ricatto che per anni ha contribuito al nostro giogo. “Vuoi il posto fisso per tuo figlio o per te? Portami mille voti”. “Vuoi il posto fisso? Fai 6 mesi di stage gratis?” “Vuoi il posto fisso? Portami tua sorella”. La sicurezza di uno stipendio, anche minimo, per sempre, ci ha fatto sottostare alle peggiori richieste, è diventato il nostro problema primario, ci ha fatto perdere di vista i cambi della società e del mondo intorno a noi, e come al solito oggi più che il lavoro in sé difendiamo un concetto retaggio del nostro passato culturale come se ad essere attaccato non fosse lui ma noi. 

E nemmeno fingiamo di non vedere che esistono posti di lavoro troppo protetti. Non parlo certo di persone alla catena di montaggio, parlo di gente che prende migliaia di euro al mese e non fa nulla e guai a toccarla (nei giornali, nelle imprese, nelle banche, nel pubblico, …).

L'autore: Alessandro Siro Campi

Alessandro Siro Campi nasce nel 1975. Si laurea nel 2000 in Ingegneria Informatica e consegue il dottorato nel 2004. Dal 2005 è ricercatore presso il Politecnico di Milano dove si occupa di Web e di interrogazioni e mining dei dati. Il suo blog personale è Alesiro
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