Un esame per accedere ai diritti politici? Ecco perché no

Pubblicato il 30 Dicembre 2013 alle 22:29 Autore: Andrea Mariuzzo
Un esame per accedere ai diritti politici? Ecco perché no

Ultimamente leggo spesso, su internet, del desiderio di limitare l’accesso all’elettorato attivo e/o passivo attraverso un esame delle competenze di base e della capacità minima di decodificare il mondo e la società che ci stanno intorno. E, per carità, ve ne sarebbe forse ben donde. Una forza politica capace di raccogliere un quarto dei voti validi alle ultime elezioni politiche promuove tavoli di confronto sulle scie chimiche e porta in Parlamento l’ABC del complottismo “signoraggista”; gli scritti di un giornalista di vela diventano la Bibbia del “revisionismo” storico su “espansionismo” piemontese e “resistenza” meridionale, orientando l’opinione di milione di persone che nemmeno ha sentore della ricerca storica più avanzata che, per fortuna, le celebrazioni del 2011 hanno avuto almeno il merito di promuovere; orde di rivoluzionari da tastiera si permettono di dettare l’agenda della sperimentazione scientifica e farmacologica non solo mancando del minimo tatto nei confronti della vita di chi ha la sfortuna di non essere il loro animale domestico, ma senza nemmeno pensare che operatori professionali della ricerca decisamente più preparati di loro si possano essere già posti, e possano sforzarsi di trovare le migliori soluzioni praticabili, ad alcune elementari e banali domande sull’efficacia delle pratiche e sulla necessità di limitare la sofferenza dei soggetti coinvolti; migliaia di persone si lasciano suggestionare da imbonitori competenti in materia quanto loro e scambiano quello che nei migliori dei casi è un placebo come un miracolo ostacolato dalla “lobby delle case farmaceutiche” (evidentemente guidata dietro le quinte da sadici privi di senso degli affari, visti i soldi che si potrebbero fare curando con un’unica terapia una classe di malattie comune come i tumori). E questo senza neppure ricordare il disagio di attraversare il ventennio dello straripante consenso berlusconiano, caratterizzato dall’ignoranza e dalla sciatteria elevate a sistema da un popolo vittima consenziente dei dilettanti in cui si specchiava. Non sarebbe meglio identificare tutta questa gente e metterla in condizione di non influire sulle scelte collettive, che, per definizione, non riguardano in forma diretta solo la loro vita ma anche quella di persone più intelligenti e rispettose della professionalità altrui, con una selezione appropriata?

Sarò sincero: ho sentito questa proposta tante volte nel corso degli anni. Del resto,  su una rigorosa selezione preventiva l’ambiente di studio della mia alma mater ha formato la propria identità e il proprio spirito di corpo. Se la Normale sostanzialmente funziona, e si è ammessi tramite un concorso (anzi, IL concorso), perché non dovrebbe essere altrimenti per il resto della società? Se lo è chiesto almeno una volta ogni normalista, ovviamente convinto, in cuor suo, di poter superare senza problemi qualunque selezione per l’elettorato attivo e passivo. Probabilmente per evitare di cedere alla tentazione di questa rassicurante proposta, ho deciso di riprendere in un rapido pezzo, una sorta di provocatorio divertissement, le ragioni fondamentali per cui il tema non si può affrontare in forma così semplice e per cui, in definitiva, una scelta del genere sarebbe sbagliata e pericolosa.

In primo luogo, è ovvio dire che nella storia l’estensione del suffragio non è stata necessariamente universale, e che nel mondo moderno si sono succeduti regimi in cui i criteri per il godimento dei diritti politici non erano immediatamente concessi sulla base della cittadinanza. Nei casi di suffragio ristretto la selezione dei cittadini dotati del diritto di voto era essenzialmente funzionale: un pilastro del pensiero costituzionale liberale classico del primo Ottocento come Benjamin Constant ha spiegato al meglio, e a più riprese, le ragioni che hanno portato a collegare l’accesso al voto soprattutto alla proprietà terriera, elemento fondamentale per garantire una piena comunanza di interessi tra il potere statale e una classe di cittadini privati le cui fortune erano profondamente correlate al loro impegno nella vita e nel mantenimento della libertà dello stato.

Successivamente a questi criteri si sarebbero effettivamente affiancate richieste di un livello minimo di istruzione, man mano che il numero degli elettori si ampliava. Ma rispetto alla sanzione dell’universalità del suffragio, ovvero della sovrapposizione tra diritti politici e cittadinanza (che pure avrebbe mantenuto alcuni residui limiti funzionali via via aboliti, come quello del divieto di voto ai carcerati, e con limiti di età che talvolta sono comunque oggetto di discussione) c’era ancora una differenza profonda. Sempre semplificando al massimo e forzando un po’ le conclusioni di un dibattito complesso e incerto negli esiti per brevità, la tradizionale giuspubblicistica liberale, il corpo elettorale era un organo dello stato, e quindi era necessario “plasmarlo” in modo che svolgesse il suo ruolo di selettore delle istituzioni parlamentari e di governo nel modo più efficace. Nella democrazia rappresentativa il corpo elettorale, corrispondente a tutto il popolo, è il sovrano: in regime di suffragio universale il voto serve per far esprimere al popolo-corpo elettorale la propria volontà nel modo più sincero possibile, anche se essa ci appare (o è, secondo alcuni criteri preliminarmente accettati?) sbagliata o formulata su basi conoscitive inadeguate.

Naturalmente, le modalità di espressione di questa volontà, e il rapporto tra la sovranità popolare e la vita istituzionale, sono stati oggetto di sperimentazioni delicate e difficili di riequilibrio, consustanziali alla natura rappresentativa delle democrazie di massa contemporanee. Ma in termini generali le posizioni d’insieme che ho espresso restano del tutto in piedi. Le obiezioni alle opzioni “aristocratiche” alla democrazia magistralmente espresse da Robert Dahl nel monumentale La democrazia e i suoi critici puntano tutte nella direzione che ho detto: qualunque “selezione” delle persone più adeguate a partecipare in vario grado alla vita politica (con conseguente esclusione degli altri) non solo non è democratica sul piano formale, ma non è efficiente sul piano della rappresentazione dei bisogni e desideri collettivi, poiché ogni individuo conosce la propria situazione e le proprie necessità meglio di chiunque altro, e non è possibile provare il contrario oltre ogni ragionevole dubbio.

Come ogni ragionamento altamente teorico, anche questo è molto più importante e ha implicazioni decisamente più dirette di qualunque considerazione su un caso singolo, ed è infatti proprio da questo contesto che si possono comprendere appieno tutti i limiti dell’idea di riservare ad esami di “abilitazione” l’elettorato attivo e passivo. Perché questa proposta può risultare accettabile al di là delle critiche dahliane alle alternative alla democrazia solo se si considera la selezione per esami un dispositivo “neutro”. In realtà la scelta dei temi da trattare, la tipologia di domande, la selezione degli esempi, sono tutti scogli rischiosi, come qualunque studio sulle metodologie della ricerca sociale metterebbe in evidenza. Pensare di selezionare elettori e possibili eletti attraverso un esame significa o non pensare che questo esame verrà fatto da esaminatori, i quali potranno facilmente ottenere i risultati che vogliono con un po’ di accortezza, condizionando la vita politica in modo non solo idealmente inaccettabile, ma anche teoricamente immotivato, o saperlo, e mascherare colpevolmente da selezione pubblica  il condizionamento che piace a noi.

A proposito dell’esame per l’accesso all’elettorato attivo, basta ricordare che questo era uno dei sistemi che per decenni ha tenuto lontani dall’accesso al voto i neri degli stati americani del Sud: in effetti, una semplice prova di cultura generale era il modo più semplice per non far votare una classe di cittadini che si teneva ostinatamente lontana dai banchi di scuole degne di questo nome. Allo stesso modo, basta un’occhiata superficiale agli studi sulla sociabilità politica italiana per accorgersi che domande appena più complicate sulla vita istituzionale rischierebbero di fare stragi di elettori che “subiscono” la partecipazione politica più che considerarla un’attività gradevole, elettori che si trova(va)no per lo più da una parte. Pensare che il problema della scarsa alfabetizzazione politica degli italiani (alfabetizzazione nel suo insieme non inferiore, comunque, alla media dei paesi occidentali) non si risolva migliorandola ma escludendo qualcuno, è un’idea o superficiale, o fin troppo scaltra.

La questione si farebbe ancora più spinosa per l’eventuale acquisizione di una idoneità all’elettorato passivo. In primo luogo, ogni selezione delle discipline da “curare” sarebbe arbitraria, se decisa per decreto e non determinata dai fatti e dai problemi concreti di fronte a cui ci si ritrova, e questo anche al di là della semplice constatazione che non esistono giustificazioni teoriche del merito tali da poterlo individuare univocamente attraverso un esame. In secondo luogo, qui ancora più che nel caso precedente si rischierebbe una selezione preferenziale di una tipologia di politici. Dire con leggerezza che “a storia della repubblica, dei partiti politici”, senza ulteriori elaborazioni analitiche, sono cose basilari per una formazione politica di alto livello, significa non essersi accorti (o saperlo bene, e sperare che la cosa faccia il suo effetto) che la storia dell’ultimo secolo è un campo di battaglia tra le parti politiche, un campo di battaglia a cui gran parte degli studiosi non si è sottratto invece di svolgere il proprio ruolo di indagine scientifica, e che l’orientamento degli esaminatori rischierebbe di avere effetti catastrofici per il funzionamento del sistema.

In conclusione mi sembra che, ancora una volta, con questa proposta di limiti all’accesso ai diritti politici determinati da selezioni ed esami sia la proposta sbagliata a problemi reali, perché semplicisticamente si sofferma sui sintomi e non sulle cause. La strada per risolvere i nostri problemi è, come ho già detto, decisamente più lunga e ardua, e per questo se andrà in porto garantirà risultati più sicuri e duraturi: occorre ricostruire il nostro rapporto di rappresentanza con i partiti mattone su mattone, con l’adozione di sistemi di selezione della classe politica e di competizione tra le policies che garantiscano un ampio e costante intervento dei cittadini, e soprattutto con la piena responsabilizzazione di una cittadinanza che troppo spesso è stata blandita da politicanti e professionisti della comunicazione capaci di attribuire con eccessiva facilità le sue colpe a “speculazione” e “poteri forti”. Non ci sono scorciatoie.

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L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
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