Tre errori di Renzi sulla separazione dei poteri: chi fa le leggi?

Pubblicato il 11 Maggio 2016 alle 09:00 Autore: Piotr Zygulski

Dell’intervista che domenica 8 maggio 2016 il Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché Segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi ha concesso ai microfoni televisivi di Fabio Fazio, durante la trasmissione Chetempochefa, in pochi si sono soffermati su una frase:

«Io dico: “Cari giudici, buon lavoro. Fate il vostro lavoro, io faccio il mio: io devo fare le leggi, voi dovete applicarle”. Questa è la dis… Basta».

Sul web solo il blogger Luigi “Malvino” Castaldi, sino al 2007 membro della Direzione nazionale dei Radicali italiani, ne ha dato notizia, con una certa vena polemica. In questa occasione, ricordiamo semplicemente il celebre principio della distinzione tra poteri, che forse Renzi intendeva menzionare. Ma commettendo tre imprecisioni, o gaffe, o lapsus, che dir si voglia. Torniamo a Montesquieu:

«Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati».

Tale principio, che separa i poteri pubblici, vige anche nella nostra Repubblica Italiana, tanto più che si tratta di una Repubblica di tipo parlamentare, in cui la rappresentanza democratica è affidata al parlamento, che elegge il Presidente della Repubblica e che accorda o rimuove la fiducia al Governo.

Premessa: i governi devono essere eletti dai cittadini?

Parlare di “governo non eletto dal popolo”, come da anni varie forze politiche fanno riferendosi a quello di Renzi (e ai due che l’hanno preceduto), è un errore grave, perché in una Repubblica parlamentare quale è la nostra il Governo non è mai eletto direttamente dai cittadini: è vero, la legge elettorale dal 2006 (dopo la riforma nota come “Porcellum”) all’articolo 14-bis richiedeva alle liste e alle coalizioni che si presentano alle elezioni politiche, contestualmente alla presentazione dei simboli e dei programmi elettorali, l’indicazione del “nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”, ma il Presidente della Repubblica conserva intatte tutte le prerogative nella nomina del Presidente del Consiglio. Nel caso di Romano Prodi nel 2006 e di Silvio Berlusconi nel 2008, il capo della coalizione vincente è poi diventato il Presidente del Consiglio designato dal Presidente della Repubblica; per i governi di Monti, Letta e Renzi è evidente che tale corrispondenza non esiste, ma si tratta di un fatto assolutamente legittimo.

La separazione dei poteri

Per esplicitare il principio della separazione dei poteri, sin dalle scuole elementari si insegna che il potere di “fare le leggi“, detto legislativo, spetta al Parlamento; quello di “eseguire le decisioni pubbliche” e di “applicare le leggi” all’Esecutivo, ossia al Governo; quello di “giudicare i delitti o le controversie dei privati” al potere giudiziario. Una divisione rigidissima è impossibile, specialmente in una forma di governo parlamentare, e ostacolerebbe il funzionamento di qualsiasi Stato; vi sono, in più, occasioni in cui ad un potere sono attribuite in parte funzioni tipiche dell’altro, basti pensare alla Corte Costituzionale italiana, che può “annullare” leggi in contrasto con la Costituzione, e in tal caso esercita una funzione normativa. Tuttavia, almeno in via di principio, la separazione dei poteri è accettata da larga parte dei giuristi favorevoli allo Stato di diritto democratico.

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Primo errore: chi fa le leggi?

Venendo alla triplice imprecisione di Renzi, quella probabilmente più grave è l’aver detto che il suo lavoro è quello di “fare le leggi”, potere che invece spetta principalmente al Parlamento. Anche nella Riforma Costituzionale su cui gli italiani dovranno esprimersi nel referendum di ottobre, viene mantenuto tale principio. Beninteso: il Governo – così come anche il CNEL (in via di abolizione), i singoli parlamentari, i Consigli regionali e il popolo, con un numero adeguato di firme – è un soggetto titolare dell’iniziativa legislativa, ossia può proporre le leggi, ma è il Parlamento a farle, se con fare le leggi vogliamo riferirci all’iter di approvazione. Forse Renzi può essere scusato per il fatto che al contempo ha mantenuto la carica di Segretario della forza politica maggiormente rappresentata nelle due Camere, ma non è un parlamentare, non essendosi candidato a quel ruolo.

Secondo: il governo deve o può emanare decreti?

La seconda imprecisione riguarda il dover fare le leggi. Il Governo, oltre all’iniziativa legislativa, a dire il vero, in due casi può emanare dei decreti che hanno forza di legge, anche se formalmente sono cosa diversa dalle leggi ordinarie. La Costituzione prevede innanzitutto i decreti legislativi (D.Lgs), quando le Camere affidano all’Esecutivo, mediante una legge delega, la regolazione di una materia specifica, indicandola espressamente e stabilendo i principi, i criteri generali e la scadenza della delega stessa. Solo in “casi straordinari di necessità e d’urgenza” il Governo può emettere Decreti Legge (D.L.), ossia “provvedimenti provvisori con forza di legge” che, se non convertiti dal Parlamento entro 60 giorni dalla pubblicazione, “perdono efficacia sin dall’inizio”. Spesso anche la Corte Costituzionale ha sanzionato l’abuso della decretazione d’urgenza (definita “una prassi che è andata sempre più degenerando”, nella sentenza n. 360 del 1996), e ha stabilito il divieto di reiterazione dei Decreti Legge. In questo caso la Riforma Costituzionale porrebbe alcuni limiti alla decretazione d’urgenza: essa dovrà avere un “contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”, per evitare i cosiddetti decreti-omnibus in cui finivano le norme più disparate.

Se si considera tutto questo (nel testo attuale della Costituzione, come in quello della riforma), è chiaro che il Governo, anche volendo ricomprendere questi Decreti nell’espressione “fare le leggi”, non ha il dovere, ma ha solo la facoltà, di ricorrere  a tali provvedimenti – che, pur avendo forza di legge, non sono leggi – solamente nelle circostanze più eccezionali.

Terza (piccola) imprecisione: chi applica le leggi?

Ultima imprecisione, sicuramente perdonabile, riguarda il “voi dovete applicarle ” rivolto ai giudici. I giudici hanno il potere giurisdizionale, ossia quello di “giudicare i delitti o le controversie dei privati”. Ma, nella teoria del diritto, quando si parla di “applicare le leggi” per descrivere il governo, si intende l'”eseguire le decisioni pubbliche”, ossia l’espletare una funzione amministrativa, ad esempio adottando regolamenti specifici per precisare e integrare le leggi. Montesquieu così descriveva tale funzione: “fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni”. Renzi in questo caso di certo non ha voluto attribuire il potere amministrativo alla Magistratura, ma ha utilizzato il termine “applicare le leggi” nel senso più immediato e “tecnico” di inquadrare i fatti secondo quanto previsto dalle leggi e di emettere sentenze conformi alle leggi: questo è pacifico, perché secondo la Costituzione Italiana i giudici sono soggetti alla legge, e soltanto ad essa.

Alcune scuole giuridiche come quella di Kelsen, va detto, rigettano la tripartizione dei poteri, ma si limitano a distinguere tra creazione e applicazione della legge: all’interno di quest’ultima rientrerebbero la funzione amministrativa e quella giudiziaria, distinzione meramente storica. Una cosa, però, è certa per tutti: le leggi devono essere fatte eminentemente dal Parlamento, e non dal Governo. Questo senz’altro ha le sue prerogative e per difenderle può in alcuni casi partecipare alla legislazione, ma “se prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più libertà”. Lo diceva Montesquieu, non un detrattore qualunque.

L'autore: Piotr Zygulski

Piotr Zygulski (Genova, 1993) è giornalista pubblicista. È autore di monografie sui pensatori post-marxisti Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa, oltre a pubblicazioni in ambito teologico. Nel 2016 si è laureato in Economia e Commercio presso l'Università di Genova, proseguendo gli studi magistrali in Filosofia all'Università di Perugia e all'Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), discutendo una tesi su una lettura trinitaria dell'attualismo di Giovanni Gentile. Attualmente è dottorando all'Istituto Universitario Sophia in Escatologia, con uno sguardo sulla teologia islamica sciita, in collaborazione con il Risalat Institute di Qom, in Iran. Dal 2016 dirige la rivista di dibattito ecclesiale Nipoti di Maritain. Interessato da sempre alla politica e ai suoi rapporti con l’economia e con la filosofia, fa parte di Termometro Politico dal 2014, specializzandosi in sistemi elettorali, modellizzazione dello spazio politico e analisi sondaggi.
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