Reddito di cittadinanza: chiamare le cose col loro nome

Pubblicato il 25 Gennaio 2017 alle 17:35 Autore: Andrea Balossino
reddito di cittadinanza

Reddito di cittadinanza: chiamare le cose col loro nome

Il punto fondamentale del programma del Movimento 5 Stelle è da sempre il Reddito di Cittadinanza, sul quale si è concentrato l’intero “sistema di propaganda” fin dalla campagna elettorale del 2013. Il Movimento, per dare maggiore sostanza alla proposta, ha presentato in merito un disegno di legge già nell’ottobre 2013 e avviato una prima sperimentazione limitata a poche famiglie nella città di Livorno, governata dal Sindaco pentastellato Nogarin.

Reddito di cittadinanza: chiamare le cose col loro nome

Mentre stampa e politici si interrogano su potenzialità e difetti dell’idea portata avanti dal partito di Beppe Grillo, nessuno sembra aver notato che ciò che i 5 Stelle chiamano “reddito di cittadinanza”, alla prova dei fatti non risulta esserlo. Infatti, è sufficiente una rapida lettura del disegno di legge per notare l’evidente incongruenza, terminologica ma anche politica, tra le premesse del documento e la proposta effettiva.

Nella premessa, i 5 stelle si richiamano a diverse normative comunitarie per sostenere la necessità e l’efficacia del reddito di cittadinanza nel contrasto della povertà e per “ridisegnare le basi del diritto all’esistenza”: “Il livello ideale, futuro e auspicabile, coincide con l’attuazione del reddito di cittadinanza universale, individuale e incondizionato, ossia destinato a tutti i residenti adulti a prescindere dal reddito e dal patrimonio, non condizionato al verificarsi di condizioni particolari e non subordinato all’accettazione di condizioni. Potremo raggiungere tale livello solo a seguito di una radicale riforma dell’ordinamento tributario e del sistema sociale”.

Ma l’articolazione successiva del disegno di legge non contiene affatto questo ambizioso progetto, anzi, il documento esplicitamente recita: “Il fine del presente disegno di legge è quello di raggiungere a un primo livello, non ancora ideale, l’introduzione del reddito di cittadinanza”. Questo primo livello, il vero oggetto del disegno di legge, nella narrazione pentastellata sarebbe il “Reddito minimo garantito”, un provvedimento di contrasto alla povertà che permette di innalzare i redditi più bassi fino ad una soglia minima (780 euro mensili, 9.360 annuali), in pratica un assegno integrativo.

Il problema sta nel fatto che “reddito di cittadinanza” e “reddito minimo garantito” sono strumenti tra loro diversissimi e certamente non si può considerare il secondo come l’anticamera ideologica del primo. Nello specifico il reddito minimo garantito è un provvedimento non troppo diverso, per contenuti e obiettivi, dalla tanto bistrattata manovra degli “80 euro” renziani e rientra nel novero di quelle lodevoli misure di contrasto alla povertà che però non richiedono sostanziali modifiche del sistema pensionistico, tributario e socio-assistenziale di un Paese, al contrario del reddito di cittadinanza, come ammettono peraltro gli stessi pentastellati.

Il collegamento tra i due provvedimenti avviene con semplicità disarmante. Nell’articolo 2 del disegno di legge, titolo “Definizioni”, si legge: “…si intende per: «reddito di cittadinanza» l’insieme delle misure volte al sostegno del reddito per tutti i soggetti residenti nel territorio nazionale che hanno un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà”. In modo arbitrario è stata attribuita al “reddito di cittadinanza” la definizione di “reddito minimo garantito”! Le ragioni di questa assurda sovrapposizione di definizioni possono essere le più diverse, dal fatto che reddito di cittadinanza evoca l’eterna italica speranza di ricevere soldi dallo Stato senza dover lavorare (dunque si tratterebbe di un’astuta mossa elettorale), fino alla più semplice e banale ignoranza di chi ha redatto la proposta, sinceramente convinto della sostanziale uguaglianza tra i due provvedimenti.

In ogni caso è evidente che le caratteristiche di universalità proprie del reddito di cittadinanza non siano minimamente oggetto della proposta dei 5 Stelle, che è invece quella di un reddito minimo garantito, destinato a circa 10 milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà; un’iniziativa sensata e lodevole anche se costosa (17 miliardi l’anno secondo le stime del Movimento). Perché allora promettere agli elettori qualcosa di diverso da ciò che si sta effettivamente proponendo? Non sarebbe più giusto, soprattutto per un Movimento che dice di voler perseguire la massima trasparenza, utilizzare i termini e le definizioni più corrette per non ingannare l’elettore?

Andrea Balossino