Riforma “Università e Ricerca”: quando la politica italiana si dimostra poco coraggiosa

Pubblicato il 28 Settembre 2009 alle 13:15 Autore: Redazione

La linea rossa è il traguardo richiesto dal Trattato di Lisbona: il 3%. L’Italia spende solo l’1,1% del proprio PIL. Una miseria. Il neo-presidente della UE José Barroso ha dichiarato più volte che il Trattato di Lisbona dovrà essere rispettato.

Arriviamo dunque al tema centrale dell’argomento:

perché in Italia la ricerca non viene pagata come negli altri paesi occidentali?

Se fossi un politico di professione vi avrei già raccontato mille storielle di come sia difficile trovare fondi, di come la politica (questo o quel partito poco importa, ndr) abbia sempre puntato sulla ricerca, sul valorizzare i propri laureati, sul rendere il sistema universitario efficiente. Ma io non sono un politico di professione, quindi non ho alcun interesse a MENTIRE. Come tutti voi, anche io devo pagare le bollette, anche io voglio comprarmi una casa e mettere su famiglia (no, in realtà non voglio mettere su famiglia, ma non importa) e vivere una vita decorosa, lavorando seriamente e con passione, perché quello che faccio amo farlo e non lo cambierei con nulla d’altro al mondo. In più io sono piemontese (di Torino, per la precisione), ed il chiacchericcio dei politici lo tollero giusto qualche minuto. Poi mi annoio e mi dedico ad altro di più produttivo.

Cosa c’è che non va nella ricerca in Italia? Andiamo per punti

1) Il sistema non è competitivo. Io ho toccato con mano due realtà diverse: il sistema anglosassone ed il sistema tedesco. Il primo punta a rendere le Università dei centri con forti finanziamenti privati, il secondo possiede una struttura statale efficiente che permette di rimanere sostanzialmente pubblico. Sono due sistemi che funzionano, e funzionano perché il mercato del lavoro di alto profilo è libero e competitivo, dove generalmente (anche lì vi sono le eccezioni, ma sono appunto, eccezioni, non la norma) chi è più bravo, intraprendente, sveglio, capace e reattivo ha maggiori opportunità di emergere. Usciti dall’Università in Italia, ogni studente viene lasciato solo con se stesso, senza una guida professionale, allo sbaraglio, alla mercè di un mondo estraneo, che ha poco tempo da perdere in ulteriore formazione.

“Lei ha esperienza?

La mia università non mi ha dato esperienza lavorativa.

Ah no? Allora non ci interessa”.

“Ma se non mi concede una chance, come faccio a farmi un’esperienza?”

“Mi spiace, così funziona qui da noi. Buona fortuna”

Le Università italiane sono incapaci di fornire collegamenti seri con il mondo del lavoro. Nelle università inglesi ed australiane, ogni dipartimento ha un ufficio preposto per i contatti con le aziende. E’ compito dello studente informarsi, certo. Tuttavia i mezzi potenziali te li concedono. Il mondo del lavoro italiano, poi, non investe in ricerca, perché considera questa forma come uno spreco di risorse finanziarie, non ha tempo da dedicare ad ulteriori formazioni professionali. O conosci già il mestiere, oppure cercano altro. E ti ritrovi in un call-center.

(per continuare la lettura cliccare su “3”)

L'autore: Redazione

Redazione del Termometro Politico. Questo profilo contiene articoli "corali", scritti dalla nostra redazione, oppure prodotti da giornalisti ed esperti ospiti sulle pagine del Termometro.
Tutti gli articoli di Redazione →