Smart working: si può dire no al capo e rifiutare il lavoro da casa?

Pubblicato il 4 Aprile 2020 alle 09:00 Autore: Claudio Garau

Smart working o telelavoro: in fase di emergenza sanitaria è possibile dire no all’azienda e non svolgere le proprie mansioni “da remoto”?

Smart working si può dire no al capo e rifiutare il lavoro da casa
Smart working: si può dire no al capo e rifiutare il lavoro da casa?

In questi giorni, a seguito della diffusione dell’epidemia di coronavirus, si fa un gran parlare dello smart working o telelavoro, ovvero una modalità di effettuazione della prestazione lavorativa “a distanza”, da remoto. Sulla scorta della positiva applicazione nel mondo anglosassone, che già da tempo conosce questa opportunità di svolgimento le mansioni lavorative, adesso anche in Italia lo smart working sta diventando più diffuso e praticato, specialmente nel settore del pubblico impiego. Le ragioni sono ovviamente collegate alla diffusione del Covid-19 e alle esigenze di ridurre gli spostamenti al minimo, anche se motivati dal lavoro svolto. Vediamo di seguito, più da vicino, una questione concreta che può tuttavia emergere: in questo periodo è possibile rifiutare di lavorare da casa e, se sì, come? Facciamo chiarezza.

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Smart working e rifiuto del lavoratore: il contesto attuale

La questione è più comune di quello che si potrebbe pensare: il lavoratore non vuole lavorare da casa, magari perché non è avvezzo all’uso del pc oppure perché nell’ambiente domestico non riesce a trovare quella concentrazione tale da garantire di essere focalizzati sulle mansioni da compiere. Tuttavia, il datore di lavoro potrebbe aver previamente deciso di far lavorare i dipendenti tramite smart working, sulla scorta di quanto sancito dal Dpcm del primo marzo 2020. E tutto ciò senza il bisogno di un accordo preventivo o di una qualche trattativa con il lavoratore subordinato: ovvero il datore può aver scelto il telelavoro per ragioni organizzative e di sicurezza. Anzi, attraverso il decreto Cura Italia è stato ulteriormente incentivato il lavoro agile o smart working, con la previsione del diritto a tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa per tutti i lavoratori dipendenti che hanno almeno una persona gravemente disabile all’interno del proprio nucleo familiare, o che sono portatori di handicap grave riconosciuto ed attestato. In quest’ultimo periodo, lo smart working è stimolato indipendentemente dal settore lavorativo e può trovare applicazione sia nel settore privato che in quello pubblico, laddove ovviamente le mansioni lavorative consentano la modalità “da remoto”.

Il telelavoro dal punto di vista giuridico: cos’è?

Giuridicamente parlando, il lavoro agile non è un tipo di contratto a sé stante, bensì è semplicemente una modalità di effettuazione dei compiti previsti dal contratto di lavoro individuale, a suo tempo stipulato tra dipendente e azienda. Non è insomma un rapporto di lavoro autonomo ma una tecnica, un metodo con cui le mansioni sono compiute tramite i supporti informatici e un collegamento internet. Il telelavoro può quindi trovare applicazione potenzialmente ovunque e verso tutti i contratti (part-time, full-time, tempo determinato ecc.).

Di solito, lo smart working viene svolto entro le mura domestiche o di altro luogo privato e solo in minima parte comporta comunque lo svolgimento del proprio lavoro all’esterno, senza una postazione fissa. Secondo la legge vigente, questa tipologia di effettuazione della prestazione di lavoro è, in via generale, stabilita e decisa su accordo di datore di lavoro e dipendente: è quindi fondamentale il requisito della volontà e della scelta consapevole di ambo le parti del rapporto di lavoro.

In questo contesto, è facile dedurre che – nella generalità dei casi – lo smart working deve sempre risultare da una scelta condivisa di entrambe le parti tramite un accordo scritto. Insomma, se non c’è l’ok anche dell’impiegato, il telelavoro non può svolgersi. Tuttavia, le recenti scelte del Governo hanno fatto propendere, per motivi sanitari, verso uno smart working deciso unilateralmente dal datore di lavoro. Ciò attraverso la predisposizione di specifici protocolli che introducono misure restrittive e raccomandano l’uso dello smart working per ogni attività che può essere effettuata presso la propria abitazione o comunque a distanza. D’altra parte, il lavoro a distanza costituisce un modo per combattere la diffusione del contagio, ben più efficace di tute, mascherine e guanti.

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Può il lavoratore rifiutarlo?

Venendo alla domanda iniziale, dobbiamo rimarcare che la situazione attuale e straordinaria di emergenza sanitaria giustifica una deroga rispetto alla disciplina generale. In altre parole, fino alla fine dell’emergenza Covid-19 lo smart working – ricorrendone le condizioni – potrà essere imposto dal capo, in ragione di esigenze sanitarie e compatibilmente con il tipo di attività aziendali: il lavoratore non potrà quindi dire no al datore di lavoro. Si tratta insomma di un’eccezione alla regola generale dell’accordo tra datore e dipendente, contemplata dai decreti dell’Esecutivo e che, d’altra parte, trova fondamento nella stessa Costituzione, in cui all’art. 32 è tutelato espressamente il diritto alla salute, sia del singolo (lavoratore), sia della collettività. Concludendo, è evidente allora che soltanto al termine della fase di contenimento dell’epidemia sarà possibile la cessazione della citata deroga e il ripristino della regola generale dell’accordo di ambo le parti del contratto di lavoro.

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L'autore: Claudio Garau

Laureato in Legge presso l'Università degli Studi di Genova e con un background nel settore legale di vari enti e realtà locali. Ha altresì conseguito la qualifica di conciliatore civile. Esperto di tematiche giuridiche legate all'attualità, cura l'area Diritto per Termometro Politico.
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