Libia, l’Italia in mezzo al guado

Pubblicato il 31 Marzo 2011 alle 21:54 Autore: Francesca Petrini
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Altro aspetto delle vicende italo-libiche prebelliche e degno di attenzione, a maggior ragione oggi che le forze alleate hanno deciso di “soccorrere” i ribelli contro il regime, è quello relativo alla vendita di 11mila tra pistole, carabine e fucili semiautomatici della ditta Beretta, tutte armi esportate dall’Italia via Malta, senza che ciò fosse segnalato all’Unione europea. Questa inquietante denuncia è contenuta in un comunicato congiunto della Rete Italiana per il Disarmo e della Tavola della Pace, diffuso il 9 marzo, nel quale le due organizzazioni definiscono “grave e irresponsabile” la condotta dei ministri degli Esteri, Franco Frattini, e degli Interni, Roberto Maroni, e stigmatizzano le “reiterate falsità” del ministro della Difesa Ignazio La Russa sul tema delle forniture militari italiane alla Libia. Nel comunicato delle due associazioni si legge che “al di là del singolare ‘errore di trascrizione’ dei funzionari maltesi, che avevano inizialmente riportato un carico di oltre 79 milioni di euro invece che di 7,9 milioni di euro di armi, abbiamo ampiamente accertato che l’Italia nel 2009 ha esportato in Libia oltre 11mila armi di tipo semiautomatico, molto simili a quelle militari e comunque estremamente letali, senza darne alcuna comunicazione né al Parlamento né all’Unione Europea”. È bene allora ricordare che la Posizione Comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armamenti (2008/944/PESC) stabilisce che i governi, prima di ogni esportazione di armi, devono accertare il “rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale”, il “rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di detto paese”, e devono rifiutare le esportazione di armi “qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna”. Aspetti del commercio di armi evidentemente poco o male valutate da parte del Governo italiano.

Si comprende allora abbastanza facilmente come, sin dall’inizio, il nostro Paese abbia accusato una particolare difficoltà nell’approccio alla risoluzione Onu 1973, alla sua interpretazione ed applicazione. Certo dei buoni propositi di un “despota amico”, solo quando i giochi a livello internazionale erano ormai fatti il Governo si è espresso nel senso di un “ritardo” nell’azione di intervento e, di conseguenza, ha ritenuto di aver commesso un errore di valutazione nel pensare che la situazione libica si sarebbe evoluta come in Egitto; a riguardo, si noti che, a differenza proprio dell’Egitto, in Libia non vi è un esercito nazionale, ma una guardia presidenziale, fatto che già da sé può costituire un indice del rischio di guerra civile. Quindi l’Italia ha aderito pienamente all’intervento che, considerato necessario e legittimo in quanto portato avanti al fine di fermare il massacro di civili in corso e sotto l’ombrello della risoluzione 1973 (quindi non in contrasto con l’articolo 11 la Costruzione, come si legge dalla risoluzione approvata dalle Commissioni Affari esteri e Difesa riunite), impegna il Paese ad adottare ogni iniziativa per assicurare la protezione delle popolazioni della regione, ivi compresa la concessione in uso di basi sul territorio nazionale.

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L'autore: Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparte, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.
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