Decreto Dignità: cosa resta davvero della stagione anti-precariato? Un’analisi a sette anni di distanza.

Pubblicato il 18 Giugno 2025 alle 14:11 Autore: Gennaro Fortunato
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L’estate del 2018 ha visto nascere il primo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega. Tra le sue prime e più dibattute iniziative vi fu il “Decreto Dignità” (DL 87/2018), presentato come strumento per contrastare il precariato e il gioco d’azzardo. Ma quanto hanno funzionato le misure introdotte? A distanza di anni è possibile analizzarne il percorso: dalla genesi agli impatti, attraverso le modifiche, fino a valutarne l’eredità.

Le misure chiave del Decreto Dignità

Approvato nell’agosto 2018 il Decreto Dignità, fortemente voluto dall’allora Ministro Luigi Di Maio, mirava a una netta discontinuità. Sul fronte del lavoro, la misura più nota fu la stretta sui contratti a tempo determinato: durata massima ridotta da 36 a 24 mesi e reintroduzione dell’obbligo di “causale” (ragioni oggettive) per contratti oltre i 12 mesi e per i rinnovi.

Per incentivare la stabilità, fu introdotto un bonus assunzioni per under 35: decontribuzione del 50% per tre anni (tetto 3.000 euro annui) per assunzioni a tempo indeterminato nel 2019-2020, misura che ricalcava incentivi passati, precedentemente criticati dallo stesso Di Maio come “bolle di finta occupazione”.

Per rafforzare le tutele, l’indennità per licenziamento illegittimo fu aumentata (minimo da 4 a 6 mensilità, massimo da 24 a 36). Ma una flessibilità limitata vide la reintroduzione selettiva dei “voucher” per agricoltura, turismo (fino a 8 dipendenti), enti locali, e per specifiche categorie (pensionati, studenti, disoccupati).

Un capitolo rilevante del Decreto Dignità riguardò il contrasto al gioco d’azzardo: divieto di pubblicità (salvo lotterie nazionali), avvertenze sui “Gratta e Vinci” (minimo 20% della superficie), tessera sanitaria per le slot. L’impatto di queste normative sugli operatori vigilati dall’ADM fu immediato, richiedendo un celere adeguamento per mantenere le concessioni ed evitare sanzioni. Il decreto, però, sollevò da subito perplessità tra esperti e imprese riguardo la sua effettiva capacità di incidere sulla vita dei cittadini.

Primi effetti e modifiche successive

Nei primi anni, si osservò un’inversione di tendenza nel mercato del lavoro. Nonostante quasi 3 milioni di lavoratori a termine (Istat), analisi successive indicarono un aumento delle trasformazioni a tempo indeterminato: +600.000 nel 2019; un milione di indeterminati in più nel 2020 rispetto al 2018, pre-pandemia. Non si verificò invece la temuta esplosione del contenzioso sulle causali.

Tuttavia, l’impianto originario del Decreto Dignità subì un progressivo “depotenziamento”. Il 2021, complice la crisi Covid, fu cruciale: le causali vennero temporaneamente sospese. Successivamente, il Decreto Sostegni bis rese la deroga più strutturale, introducendo la possibilità di prorogare o rinnovare contratti oltre i 12 mesi senza le causali originarie se previsto da “specifiche esigenze” dei contratti collettivi (nazionali, territoriali, aziendali), demandando così alla contrattazione una leva importante della flessibilità. Fino a settembre 2022, gli accordi collettivi permisero anche contratti a termine oltre i 24 mesi.

La revisione del Governo Meloni

Il Decreto Lavoro (DL 48/2023) del governo Meloni “smantellò” gran parte delle residue restrizioni del Decreto Dignità sul lavoro a termine. Diverse analisi hanno evidenziato come il Decreto Dignità avesse inizialmente contribuito a favorire la stabilità, allineando l’Italia alle direttive UE che privilegiano il tempo indeterminato.

Il suo superamento, secondo questa visione, avrebbe quindi rischiato di reintrodurre una “economia della precarietà”, penalizzando giovani e lavoratori vulnerabili e favorendo una competizione basata sul basso costo del lavoro anziché sull’innovazione.

Una specifica preoccupazione riguardava l’affidamento delle causali a una contrattazione collettiva talvolta frammentata, con il potenziale pericolo di “contratti pirata” e di un indebolimento delle tutele. Le cose però sono andate diversamente, anche grazie alla presenza di politiche volte a promuovere investimenti in ricerca, sviluppo e capitale umano.

Cosa è rimasto del Decreto Dignità nel 2025?

A metà di questo decennio, il Decreto Dignità appare come una parabola legislativa significativa: da provvedimento simbolo di una stagione politica a normativa progressivamente erosa e infine superata.

Se i dati dei primi anni suggerirono una sua, seppur temporanea, capacità di orientare il mercato verso una maggiore stabilizzazione, le modifiche legislative intervenute a partire dal 2021 ne hanno inevitabilmente limitato la portata e la durata degli effetti originari. L’intera vicenda ha indubbiamente lasciato aperto il dibattito tra la flessibilità richiesta dal sistema produttivo e la cruciale necessità di tutele e sicurezza per i lavoratori.

In questo senso, la storia del Decreto Dignità può essere interpretata come un monito sulle intrinseche difficoltà di intervenire in modo duraturo ed equilibrato sulle complesse dinamiche che governano il lavoro a termine nel contesto italiano, una sfida che rimane centrale.