Perché privatizzare sarebbe un errore

Pubblicato il 18 Giugno 2012 alle 19:47 Autore: Giacomo Bottos

Questo discorso, poi, è tanto più valido nel caso di Eni, che ha prospettive di crescita straordinarie. Oltre all’incremento dello sfruttamento già in corso dei giacimenti in Russia (Yamal), mare di Barents, Kazakistan, Venezuela e nella regione dell’Africa sub-sahariana, di recente sono state fatte diverse nuove scoperte di grandi dimensioni, ad esempio in Mozambico. Si preannuncia una crescita costante della produzione nei prossimi anni. Qualunque investitore razionale si terrebbe ben stretta un’opportunità del genere.

In genere, però, chi si fa sostenitore delle privatizzazioni, ritiene che lo Stato sia un cattivo gestore, che la proprietà pubblica generi inefficienza e corruzione, portando ad esempio l’esperienza italiana della prima Repubblica e sostenendo che per evitare tutto ciò l’unica possibilità sia quella di cedere gli asset che la mano pubblica non sa gestire, lasciando la gestione ai privati.

Tuttavia da un lato l’esperienza delle privatizzazioni in Italia nella maggior parte dei casi ha dato riscontri assolutamente insoddisfacenti. Dall’altro, la ricostruzione storica dell’esperienza dell’intervento pubblico che fanno i teorici delle privatizzazioni è fortemente parziale. Se è vero infatti che, sopratutto a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, l’intervento pubblico ha dato origine a episodi di corruzione e mala gestione, si dimentica invece che, sopratutto nei primi vent’anni del dopoguerra, ma in singoli casi anche successivamente, il sistema della partecipazioni statali ha fornito alcuni dei più alti esempi di imprenditoria lungimirante e illuminata della storia italiana.

L’industria pubblica italiana nasce dalla necessità di salvare numerose industrie private colpite dalla crisi del ’29 e le banche che (come la Comit, la Banca Commerciale Italiana) detenevano numerose partecipazioni azionarie nelle aziende stesse. Venne così creata l’IRI e venne varata una legge bancaria che trasformava tre banche (la Comit, per l’appunto, e poi il Credito Italiano e la Banca di Roma) in Banche di Interesse Nazionale (BIN) regolate dal diritto pubblico. Pur essendo stata compiuta sotto il fascismo, questa operazione venne gestita da personaggi di formazione e convinzioni non fasciste o antifasciste, come Alberto Beneduce, Donato Menichella,Raffaele Mattioli (che subentrò nella gestione della Comit).

Può sembrare paradossale oggi, ma il “sistema Beneduce” nasceva da una sfiducia nelle capacità della classe imprenditoriale privata italiana e si basava sull’assunto che solo un rilevante (ma ovviamente non esclusivo) intervento della mano pubblica potesse assicurare le scelte di lungo periodo necessarie allo sviluppo dell’economia nazionale.

Di fatto, quello che nacque inizialmente come un temporaneo progetto di salvataggio, venne proseguito e rilanciato nel dopoguerra, con il concorso di uomini nuovi, tra i quali un ruolo di spicco ha giocato Enrico Mattei.

Il problema era quello di assicurare un efficace utilizzo delle risorse del piano Marshall per promuovere lo sviluppo economico dell’Italia (al tempo paese “ritardatario” nello sviluppo capitalistico) e inserirla a pieno titolo nel novero delle potenze economiche mondiali.
Grande figure di imprenditori pubblici sostennero con forza che l’Italia doveva ambire a questo obiettivo, contro l’opinione di buona parte dell’imprenditoria privata (con alcune eccezioni) che invece voleva adottare scelte di più basso profilo che salvaguardassero la sicurezza delle loro rendite di posizione.
Importanza centrale assunsero le scelte di sviluppare fortemente la siderurgia, che fece da volano allo sviluppo dell’industria meccanica, le infrastrutture (è in quell’epoca che fu costruita buona parte della rete autostradale).

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L'autore: Giacomo Bottos

Nato a Venezia, è dottorando in filosofia a Pisa, presso la Scuola Normale Superiore. Altri articoli dell’autore sono disponibili su: http://tempiinteressanti.com Pagina FB: http://www.facebook.com/TempiInteressanti
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